December 2014

Ragusa-Cogne: l'ovvio parallelismo

La casa della famiglia Lorenzi a CogneSeguo, come tutti, le dolenti notizie che arrivano da Ragusa. Questa giovane madre, Veronica Panarello, 26 anni, accusata di avere strangolato il figlio. Una storia cominciata a fine novembre, con il rinvenimento del piccolo Loris, otto anni, gettato per altro ancora agonizzante in un canale. La pista del possibile pedofilo ha retto poche ore.
Sul fatto si sono tutti gettati a pesce: la cronaca nera continua ad essere, specie per certa televisione, la regina degli ascolti, in particolare di quei contenitori televisivi - sfuggiti ormai ad elementari logiche deontologiche con buona pace dell'Ordine dei giornalisti, che se occupa a gabbie ormai aperte... - che amano le storiacce a tinte forti e per i cronisti dei giornali sul posto esiste l'imperativo di scavare filoni originali per distinguersi dai colleghi. Ne risulta, alla fine, una quadro descrittivo della madre, delle sue origini, della sua famiglia, di quella provincia siciliana degna di essere raccontata - nel suo strano impasto linguistico e con il suo acume - da un Andrea Camilleri. Penso ne farebbe in fretta un successo letterario.
Ma, su queste vicende di follia e orrore, tutto il mondo è paese e, se la donna non confesserà, si entrerà nel girone dantesco dei processi, sapendo come un processo indiziario apra automaticamente lo spazio a innocentisti e colpevolisti e agli ospiti delle trasmissioni, che sono ormai una specie di "Circo Barnum" fra avvocati, criminologi, psicologi ed opinionisti. Scelti in genere fra chi urla più forte e aggredisce gli avversari, perché la televisione gridata sembra essere quella che garantisce gli ascolti, ammesso e non concesso che sia così.
Certo che il riferimento ad Annamaria Franzoni e di quello che purtroppo resta agli atti come il "delitto di Cogne" viene subito alla mente. Il 30 gennaio 2002, nella celebre villetta di Montroz (come da plastico di Bruno Vespa) uccise il figlio Samuele Lorenzi, come riconosciuto in modo definitivo sei anni dopo con la sentenza di Cassazione. Quel caso divenne un avvenimento mediatico senza pari sia per l'avvenenza della Franzoni, che andò più volte in televisione, sia perché questo faceva parte di una precisa strategia processuale di difesa a mezzo stampa. Si tratta di vicende che devono essere studiate da chiunque faccia il mestiere dell'informazione, perché si trattò di una palese stortura di un processo mediatico, che è diventato purtroppo un modello cui riferirsi per gli altri mille casi intricati di questo genere. Devo dire per onestà che io stesso - nel gioco dei pro e dei contro - mi schierai istintivamente con chi riteneva il comportamento della Franzoni come segno evidente di una sua colpevolezza, e devo dire che l'esito dei tre gradi di giudizio mi ha confortato in questa impressione, che ebbi fin dal funerale del piccolo Samuele.
Spero solo che il caso di Ragusa finisca meglio, nel senso che non si resti con il retrogusto amaro - valido per me sulla questione di Cogne - che non tutto sia stato davvero scoperto. Chi coprì e chi aiutò la Franzoni subito dopo il delitto? Con quale oggetto fu davvero ucciso Samuele? Possibile che nessuno, nell'intimità della famiglia, le abbia strappato la verità?
Sono dubbi "usa e getta", che non servono a niente. Ma che forse chiariscono come, a fronte di delitti di questo genere, contino davvero i primi momenti sia nei contatti con chi si ritiene colpevole attraverso una reale capacità negli interrogatori, sia con le analisi ormai avanzatissime che si devono poter fare sugli scenari dei delitti, a condizione che non si cancellino per imperizia tutti quei "segni" utili poi nelle fasi processuali. Par di capire che a Cogne, su entrambi i fronti, fu un disastro.
Ormai le serie televisive poliziesche o noir, specie americane, ci abituano, così come le goffe imitazioni italiane, alla perizia e sagacia di veri e propri segugi del crimine, che sciolgono dubbi e ingabbiano i colpevoli. Ma si tratta di fiction.

Il giornale come il vinile?

Leggevo, l'altro giorno, su "La Stampa" Alain Elkann, padre di cotanti figli, avuti con Margherita Agnelli, e cioè John - ai vertici della fu "Fiat", - Lapo (turbolento e inventivo) e Ginevra (che fa la produttrice cinematografica). Mi riferisco alla sua interessante intervista a Mathias Döpfner, 51 anni, amministratore delegato del gruppo editoriale tedesco "Axel Springer SE".
Risponde così alla domanda sulla digitalizzazione: «Ci sono un bel paio di sfide, e non solo per il settore dei media. Prima o poi tutte le industrie dovranno rendersi conto che la produzione, la distribuzione, il marketing, le scelte dei clienti stanno cambiando radicalmente. Pertanto, qui ad "Axel Springer" ci sforzeremo di diventare gli editori digitali di riferimento. Abbiamo già fatto molto dal 2002 a oggi. Nel mondo digitale incassiamo con le stesse modalità che abbiamo avuto per decenni nel mondo analogico, su tre fonti di ricavi: il lettore pagante, il cliente della pubblicità e l'inserzionista. Oggi oltre il cinquanta per cento del nostro fatturato viene da imprese digitali, il settanta per cento dei nostri profitti operativi sono digitali, e circa tre quarti dei nostri ricavi pubblicitari arrivano da imprese digitali. Siamo probabilmente il gruppo editoriale tradizionale più digitalizzato del mondo».

Caro Gesù Bambino...

Il classico Bambinello del presepeCaro Gesù Bambino,
so che sono terribilmente fuori moda, perché oggi - per convenzione generale - si scrive a Babbo Natale. Capisco che lo faccio fare anch'io all'unico dei tre figli, al limitare dei quattro anni, che crede ancora che questo Babbo Natale esista davvero ed è buon per lui. Quando scoprirà che non è così, ma avrà una disillusione compensata però dalla consapevolezza che la ferale scoperta è controbilanciata da uno degli elementi di fierezza di "diventare grande". Andrebbe spiegato che, purtroppo, il tempo passa in fretta e dovrebbe abbeverarsi, finché può, nei miti dell'infanzia. Oggi, comunque, il piccolino vive la pressione di "essere buono" per avere i regali, terribile ricatto genitoriale, che per altro è esempio tangibile di "coda di paglia", perché neppure se fosse un mostro di cattiveria lo priveremmo dei regali natalizi.
L'altro giorno in un cartone animato ha visto un Babbo Natale che, prima di depositare i doni, incarica un elfo con una specie di macchinetta di controllare se il bimbo dormiente nel letto sia stato buono o no e pertanto meritevole di ricevere i regali. Led verdi in caso sia tutto a posto, led rossi se il soggetto è stato cattivo e come tale non meritevole del deposito del pacco sotto l'albero. La questione gli ha messo addosso una certa angoscia, preferendo di certo la mediazione dei genitori sul verdetto, perché penso li immagini più malleabili di quell'aggeggio maledetto. E' stato rassicurato sul punto: lasceremo accanto a latte e biscotti un'attestazione di merito. Cuore di genitori...
Tornando al punto, è chiaro che i destinatari potenziali delle lettere sono due cose diverse: il Bambin Gesù era già in casa con noi sotto Natale, steso nella sua culla nella capanna del presepe, che è vero che è un simbolo per noi cristiani, ma io - anche se immagino sia politicamente scorretto - me lo figuro come un'immagine universale della Natalità e della famiglia e dunque accettabile come tale da parte di chi è laico o di chi crede in un'altra religione. Invece sappiamo che c'è chi non crede che sia così e me ne dolgo, pur sapendo che è giusto che ogni fede abbia i propri riferimenti.
Babbo Natale, invece, per altro raffigurato oggi come nelle pubblicità della "Coca-Cola", che risalgono al 1931, è una sommatoria improbabile di leggende di varia provenienza, che sfociano nel vecchio generoso e saggio che sta al Polo Nord dove riceve le letterine dei bimbi richiedenti, fabbrica i giocattoli e li consegna a domicilio.
Ma io non ho imbarazzo a scrivere al vecchio indirizzo, cui scrivevo quando ero bambino.
Riprendo perciò da dove ho cominciato.
Caro Gesù Bambino, ti scrivo per questo Natale 2014, che è poi anche il mio 56simo compleanno e credo che questa circostanza valga, come in passato, per la considerazione di un duplice regalo.
Quando gli anni passano, la richiesta dei regali cambia e non solo per la tipologia dei doni, che seguono la proprio evoluzione, ma anche per la loro sostanza. L'esperienza porta a dire, senza farsi travolgere dalla retorica dei "discorsoni" (pace, fratellanza e via di questo passo), che il regalo sta nella quotidianità degli affetti, delle amicizie, nello star bene con sé stessi e con gli altri e nel credere nel patrimonio di idee e di speranze che ci rendono quelli che siamo.

Napolitano e l'antipolitica

Il Presidente Giorgio Napolitano all'Accademia dei LinceiE' stata molto discussa, in queste ore, la conferenza tenuta dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, intitolata "Crisi di valori da superare e speranze da coltivare per l'Italia e l'Europa di domani" presso l'Accademia Nazionale dei Lincei. In un quadro di questo genere, dall'ovvia vastità, l'intervento del Capo dello Stato ha trattato anche argomenti di attualità e si è espresso sull'antipolitica e questo gli ha causato qualche critica, mentre semmai quel che sarebbe stato evitare è l'aspra polemica con i "5 stelle" (ma, forse, chi la fa al Quirinale... l'aspetti). Temo che molti abbiano commentato la storia dell'antipolitica sulla base delle sintesi del discorso fornite dalle agenzia di stampa. Io sono andato a rileggermi, sul sito del Quirinale, quanto detto nella sua interezza e ne riporto qui alcuni parti salienti, che permettono un giudizio più equilibrato di virgolettati frettolosi.
Saltate alcune premesse, si può dire che Napolitano viene al sodo dopo poche frasi: «Consentitemi qui almeno un breve richiamo alla stagione che vissi e di cui sono rimasto tra i sempre meno numerosi testimoni: la stagione della rinascita, in Italia, della politica come dimensione morale e ideale dell'essere persona e dell'essere cittadino. La politica sequestrata e stravolta dal fascismo in quanto regime liberticida e autoritario, in quanto monopolio del potere - repressivo di ogni confronto di idee e di posizioni - aveva visto staccarsi da essa, con disgusto e disprezzo, le nuove generazioni. La politica riapparve come qualcosa di nuovo e pulito attraverso i canali di un apprendistato giovanile anti-fascista nel pieno della guerra, e infine attraverso l'esperienza dirompente della Resistenza. Quel fenomeno venne analizzato da un giovane intellettuale straordinariamente dotato, che fu tra i primissimi caduti della nostra Resistenza, Giaime Pintor: e fu da lui identificato come "la corsa verso la politica" da parte dei migliori, simile "a quello che avvenne in Germania quando si esaurì l'ultima generazione romantica. Fenomeni di questo genere si riproducono ogni volta che la politica cessa di essere ordinaria amministrazione e impegna tutte le forze di una società per salvarla da una grave malattia, per rispondere ad un estremo pericolo". E in effetti, durò degli anni in Italia, oltre la Liberazione del 1945, quell'afflusso di massa di nuove energie all'attività politica, quello slancio di partecipazione che si accompagnò innanzitutto al processo costituente, fondativo di un nuovo ordine democratico nel nostro paese, e si tradusse in robusta crescita dei partiti politici, e in vitale competizione tra essi su basi formative e programmatiche serie e degne».
Lascio sulla carta qualche passaggio, ma resto nel filo del pensiero, così come espresso dal Presidente: «un moto di accesa contestazione nei confronti della politica, e per essa dei partiti e delle istituzioni rappresentative, si era fatto sentire fin dalla fine degli anni '80: reagendo ad abusi di potere, catene di corruzione, inquinamenti nella selezione dei candidati a incarichi pubblici e in generale nei meccanismi elettorali. Di qui lo stimolo e il sostegno all'opera della magistratura, simboleggiata dall'attività del pool "Mani pulite". Far pulizia nel mondo della politica e riformare regole e istituzioni indubbiamente logoratesi o risultate inadeguate, apparvero i due imperativi della stagione 1992 - 1994. E risultati non certo irrilevanti si registrarono in ambedue i sensi: con un rimescolamento assai vasto dei gruppi dirigenti dei partiti, addirittura con la scomparsa o dispersione di alcuni di essi, e con la riforma delle leggi elettorali per il Parlamento e per i Comuni. E se si è detto molto su quel che allora mancò, si è stati molto restii a riconoscere gli sforzi che successivamente, nel corso di anni più o meno recenti, si sono fatti: impegni concreti e ulteriori passi sulla via del rinnovamento, inteso ad esempio come superamento di posizioni di privilegio nell'ambito pubblico. Si possono deplorare i ritardi e le riluttanze con cui le istituzioni pubbliche abbiano effettivamente preso decisioni e operato su quel terreno, a salvaguardia del prestigio della politica o al fine di superarne la crisi. D'altronde, non deve mai apparire dubbia la volontà di prevenire e colpire infiltrazioni criminali e pratiche corruttive nella vita politica e amministrativa che si riproducono attraverso i più diversi canali come in questo momento è emerso dai clamorosi accertamenti della magistratura nella stessa capitale. Eppure, il dato saliente resta quello del dilagare, ormai da non pochi anni a questa parte, di rappresentazioni distruttive del mondo della politica. Sono dilagate analisi unilaterali, tendenziose, chiuse a ogni riconoscimento di correzioni e di scelte apprezzabili, per quanto parziali o non pienamente soddisfacenti. Di ciò si sono fatti partecipi infiniti canali di comunicazione, a cominciare da giornali tradizionalmente paludati, opinion makers lanciatisi senza scrupoli a cavalcare l'onda, per impetuosa e fangosa che si stesse facendo, e anche, per demagogia e opportunismo, soggetti politici pur provenienti dalle tradizioni del primo cinquantennio della vita repubblicana. Ma così la critica della politica e dei partiti, preziosa e feconda nel suo rigore, purché non priva di obbiettività, senso della misura, capacità di distinguere ed esprimere giudizi differenziati, è degenerata in anti-politica, cioè, lo ripeto, in patologia eversiva. E urgente si è fatta la necessità di reagirvi, denunciandone le faziosità, i luoghi comuni, le distorsioni, impegnandoci in pari tempo su scala ben più ampia non solo nelle riforme istituzionali e politiche necessarie, ma anche in un'azione volta a riavvicinare i giovani alla politica valorizzando di questa, storicamente, i periodi migliori, più trasparenti e più creativi. Un tale impegno, volto a rovesciare la tendenza alla negazione del valore della politica, e anche del ruolo insostituibile dei partiti, richiede l'apporto finora largamente mancato della cultura, dell'informazione, della scuola».
Così situato, mi pare che poter dire che il ragionamento è lineare. Condivisibile o non condivisibile che sia, nel mio caso ritrovo molti dei miei pensieri sul tema. Specie laddove Napolitano aggiunge: «certo, so bene che fatale è stato, per mettere in crisi soprattutto l'avvicinamento dei giovani alla politica, l'impoverimento culturale degli attori e dei punti di riferimento essenziali, cioè dei politici e dei partiti. L'ho percepito e l'ho scritto quasi dieci anni fa, nella mia autobiografia politica, scritta anche in vista del commiato da pubbliche responsabilità. Insisto sul dato dell'impoverimento culturale, inteso come smarrimento di valori, verificatosi anche per effetto di uno spegnimento delle occasioni di formazione e di approfondimento offerte nel passato dai partiti in quanto soggetti collettivi dotati di strumenti specifici e qualificati. E' stato questo un fattore decisivo anche di impoverimento morale. Perché la moralità di chi fa politica poggia sull'adesione profonda, non superficiale, a valori e fini alla cui affermazione concorrere col pensiero e con l'azione. Altrimenti l'esercizio di funzioni politiche può franare nella routine burocratica, nel carrierismo personale, nella ricerca di soluzioni spicciole per i problemi della comunità, se non nella più miserevole compravendita di favori, nella scia di veri e propri circoli di torbido affarismo e sistematica corruzione».
Aggiungo infine il passaggio sull'Europa: «gli ingredienti dell'anti-politica in ciascuno dei nostri Paesi si sono confusi con gli ingredienti dell'anti-europeismo. A ciò hanno certamente contribuito miopie e ritardi delle istituzioni comunitarie insieme a calcoli opportunistici degli Stati membri. Ma si è così finito per far cadere in ombra lo straordinario contributo al mantenimento della pace, al benessere economico e alla tutela dei diritti che l'Unione Europea ha saputo via via garantire ai suoi cittadini: in particolare alle più giovani generazioni che hanno la fortuna di crescere in un continente per la prima volta senza frontiere e barriere interne».
E' bene ricordarlo.

Tra Stevenson e Andersen

La versione 'Disney' del romando di Stevenson, intitolata 'Lo strano caso del Dottor Ratkyll e di Mr Hyde'Sono passati molti anni da quando lessi "Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde", celebre romanzo di Robert Stevenson, in cui si racconta la storia di un medico che, facendo degli studi sulla psiche umana, capisce che ogni individuo ha dentro sé stesso una doppia natura, come se si trattasse di due personalità contrapposte, una buona e una cattiva. Tema vecchio come il mondo, che ha forgiato le religioni, ha occupato biblioteche di tomi filosofici e che constatiamo quotidianamente nella nostra vita.
Attraverso apposite pozioni, il Dr. Jekyll, la parte buona, riesce a trasformarsi nel cattivissimo Mr. Hyde, un alter ego persino diverso fisicamente con un aspetto da malvagio lombrosiano. La storia finisce male, quando il medico si rende conto che il Male sta ormai avendo il sopravvento e dunque si suicida.
Come spesso capita ai libri, di loro resta nel tempo magari solo un’espressione ed è il caso in esame. Modo di dire che usiamo, nel linguaggio corrente, quando una medesima persona si comporta, pur essendo sempre lo stesso, in modo diametralmente opposto.
Ci pensavo leggendo, via "Twitter", alcune delle cronache del Consiglio Valle in occasione della "lunga" del Bilancio. La politica, ormai da anni, a Roma come ad Aosta - e ne sono stato testimone e protagonista - organizza queste lunghe sessioni, anche con la "notturna" dei lavori, quando si esamina la manovra finanziaria. E' una prassi piuttosto insensata questa logica da maratona, ma è una tradizione a cui sembra non si possa derogare, perché questa drammatizzazione è un'abitudine difficile da sradicare. Nella logica parlamentare esistono, infatti, riti antichi, che diventano consuetudini e che fanno ormai a cazzotti con la modernità. Il parlamentarismo, se non vuole essere spazzato via a furor di popolo, dovrà trovare modalità nuove e diverse, rispetto a certi retaggi ottocenteschi.
Ma dicevo della doppia personalità. Sono ammirato da chi, come il presidente della Regione Augusto Rollandin, riesce in contemporanea ad avere comportamenti assolutamente conservatori nella realtà dei fatti o anche a dire cose e farne altre, ma poi negli interventi in aula è tutto una critica a cose da lui stesso forgiate, nel nome del dialogo e dei mutamenti di rotta. Operazione che evoca appunto quella dicotomia, spinta da Stevenson su terreni ben diversi, che può albergare nello stesso animo umano.
O si tratta di uno smarrimento, che finisce in qualche maniera, per distorcere la vita vissuta attraverso un piano immaginifico di ciò che potrebbe essere, se solo le cose fossero diverse, oppure, al posto di essere questa astrazione, si tratta di una pura operazione di conservazione dello status quo. Il cambiamento è un pretesto, come evocare un sogno, che cancelli invece una realtà nuda e cruda, frutto di scelte politiche e personali, che parlano da sole attraverso le cose che si fanno ogni giorno.
E torna comodo, in pensieri come questi, il motto gattopardesco: "Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi". Ma in realtà il racconto nel libro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e anche questa frase emblematica sono lo specchio di una società tradizionale nella Sicilia borbonica al suo tramonto. Se applicata oggi alla Valle d'Aosta, che sembra paralizzata, spaventata e al crepuscolo dell'attuale sistema autonomistico, questa frase beffarda va respinta, ma la situazione obbliga comunque a riflettere sul futuro (Union Valdôtaine Progressiste, non a caso, ha lanciato la Costituente Valdostana).
In questa temperie, il tentativo di far passar per cambiamento quanto non lo è diventa un'operazione ardita, che alimenterebbe sfiducia e antipolitica.
La crisi economica e l'inazione amministrativa e politica mostrano quanto «il Re è nudo», frase che deriva da una fiaba danese scritta da Hans Christian Andersen, che si intitola "I vestiti nuovi dell'Imperatore". Alcuni imbroglioni giunti in città spargono la voce di essere tessitori e di avere a disposizione un nuovo e formidabile tessuto, sottile, leggero e meraviglioso, con la peculiarità di risultare invisibile agli stolti e agli indegni. I cortigiani inviati dal re non riescono a vederlo, ma per non essere giudicati male, riferiscono all'imperatore lodando la magnificenza del tessuto. Col nuovo vestito, fatto con il tessuto inesistente, il Sovrano sfila nudo per le vie della città di fronte a una folla di cittadini che applaudono e lodano a gran voce la sua eleganza. L'incantesimo è spezzato da un bimbo che, sgranando gli occhi, grida: «ma non ha niente addosso!». Da questa frase deriverà appunto la famosa espressione «Il Re è nudo!».
E lo è quando un mondo di fantasia e di speranze smette di corrispondere alla difficile è deprimente realtà del presente.

I volti differenti della cooperazione

Migranti a LampedusaSono stato in passato in due luoghi simbolici dei flussi migratori: l'isola di Lampedusa, che è più vicina all'Africa che alla Sicilia, e il porto di Pozzallo, in provincia di Ragusa, dove vengono portati molti dei disperati raccolti nei barconi in mare.
Sono questi due avamposti dell'Europa, come l'isola di Malta, che ho pure visitato, e dove a parlare di migranti sono piuttosto imbarazzati, vista la tendenza - in barba alle regole europee - a scaricare sulla vicina Italia quelli che in tempo chiamavamo "extracomunitari". Termine scomparso non solo nel nome del politicamente corretto, ma anche del buonsenso, perché altrimenti, rispetto all'Europa, sono extracomunitari anche svizzeri e norvegesi.
I migranti, invece, sono persone in fuga, per guerre o per povertà, e scelgono l'immigrazione clandestina per avere una chance. Il flusso non si ferma nella misura in cui il Sud è sempre più distante dal Nord del Mondo e nuove ragioni si sommano come molla per questi viaggi della speranza. Pensiamo alla nuova aggressività dell'estremismo islamico, che obbliga molti alla fuga dai Paesi d'origine, e oltretutto può usare queste migrazioni per forme di "infiltrazione" che devono preoccupare.
Dei flussi crescenti dei disperati, che diminuiscono d'inverno solo per le condizioni del mare, si sa bene. Così come non mancavano le analisi qualitative e quantitative per avere contezza del fenomeno e dei problemi che innesca.
Sapevamo tutto anche del ruolo delle Mafie, che prima organizzano gli spostamenti verso le coste africane e poi da lì regolano le partenze nel Mediterraneo. Una macchina ben oliata e redditizia.
Mancava, tuttavia, una consapevolezza, che è apparsa con chiarezza nella vicenda della Mafia Capitale di Roma: anche qui da noi il business è d'oro.
Sulla complessa e costosa macchina dell'accoglienza (lunghissima per chi chieda asilo politico), in questo caso, il malaffare si è mischiato, purtroppo, alla cooperazione sociale. Ricordo di aver seguito alla Camera dei deputati la legge approvata nel novembre 1991, numero 381 "Disciplina delle cooperative sociali". L'incipit era bello e degno di una società civile: "Le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l'interesse generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione sociale dei cittadini attraverso:
a) la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi;
b) lo svolgimento di attività diverse - agricole, industriali, commerciali o di servizi - finalizzate all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate"
.
Musica per le orecchie di un federalista che crede, per sua natura, nella cooperazione e nel mutualismo, che - se veri - giustificano tutte le conseguenti agevolazioni e vantaggi sul Mercato. Peccato, però, che nel settore, come nella cooperazione "normale", si siano infilati nel tempo anche dei loschi figuri o dei gruppi economici enormi, che sono ormai come elefanti nella cristalleria della cooperazione.
Sarebbe bene che il mondo che se occupa, che sia Sinistra o mondo cattolico, si battesse contro abusi e ruberie a favore della parte sana. Altrimenti si farà di tutta un'erba un fascio nel gran calderone dei dubbi e delle insinuazioni. In più, prima o poi, l'Europa interverrà come un tritasassi nel nome dei principi della concorrenza, visto che quand'ero a Bruxelles su certa cooperazione italiana, che cela vere e proprie holding, si sprecavano i sorrisini.

"Non devi dire le parolacce!"

Divieto di parolacce"Parolaccia" è un termine della fine del Quattrocento e designa quelle parole impertinenti che fioriscono con volgarità nelle conversazioni ("gros mot" in francese esprime lo stesso giudizio).
Così il «non devi dire le parolacce!» è fin dalla più tenera infanzia un ammonimento classico, destinato - per suo triste contrappasso - a creare un'aurea d'interesse verso quanto esplicitamente vietato (come genitori lo sappiamo, ma non possiamo astenerci dal farlo). Così per tutti la parolaccia diventa una di quelle espressioni che caratterizzano l'affermazione della propria personalità, specie se fa parte di quella logica da tribù della compagnia di amici che sboccia in epoca adolescenziale.
Come tutti, ho avuto il periodo in cui le parolacce facevano pendant con il linguaggio giovanile, specie in quegli anni Settanta in cui, in una logica liberatoria, diventarono l'interiezione per eccellenza (e cioè "parola o locuzione invariabile che serve ad esprimere uno stato d'animo, di gioia, dolore, sdegno, paura ecc."). Destinata a cambiare a seconda delle frequentazioni, nel mio caso dal "pirla" dei milanesi in montagna, al sempre presente "belìn" degli imperiesi al mare, mentre al Liceo ad Ivrea emergevano i piemontesismi, tipo l'omofobo "cupiu".
Si potrebbe fare un giro delle Regioni italiane, perché ognuno ha nel suo dialetto espressioni caratteristiche che fioriscono nei diversi vernacoli e finiscono per diventare delle note per una facile identificazione. Nel mondo francofono è esattamente la stessa cosa: a seconda delle varianti locali ci sono espressioni differenti.
Ricordo che Roberto Benigni ha fatto del giro d'Italia delle parolacce con cui si definiscono gli organi sessuali maschile e femminile una sua gag irresistibile, che dimostra per altro soluzioni linguistiche assolutamente geniali, spesso esempio del genius loci delle diverse popolazioni che adoperano certe espressioni.
Scrivo di questo tema, perché con grande divertissement, sono nella fase, con il "caverino" più piccolo, quattro anni domani, in cui - assieme alla mamma - cerchiamo di definire espressioni che possano essere adoperate in caso di necessità. Anche perché, giorni fa, alla materna gli è venuta lì per lì la parolaccia più adoperata e cioè quella con la doppia "zeta", che è termine trecentesco per designare il pene, che avrà pure etimologia incerta, ma che gode ancora di ampia diffusione. Naturalmente, con dose di evidente ipocrisia, abbiamo bollato il fatto come di grandissima gravità con una ramanzina in cui ci siamo dimostrati genitori attoniti e addolorati. Non fosse che lui all'asilo aveva carognescamente precisato «l'ho sentita da papà». Prendi e porta a casa...
Per cui al pargolo sono stati suggeriti «acciderba», «urca», «mannaggia», «caspita» e via di questo passo.
Penso che, per quanto l'intento sia nobile, l'uso di certi ferrivecchi sia nella pratica linguistica estremamente improbabile e artificioso. Ma almeno la coscienza è salva.

Se il Social racconta la Storia

Un tablet 'preistorico'E' un possibile regalo di Natale, che racconta una storia incredibile e ci pone di fronte ad una stimolante avventura intellettuale. Cosa sarebbe stata la Prima Guerra Mondiale se all'epoca ci fossero stati i Social? Oppure: possono i Social aiutarci a ricreare vicende storiche per arricchire anniversari, come quello dei cento anni dallo scoppio della Grande Guerra?
Partiamo dal libro e dalla descrizione che ne viene fatta per i possibili acquirenti: "Léon 1914, Le poilu aux 60000 fans" sort aux Editions de l'Oppportun, enrichi d'un nouveau contenu digital. A l'aube du Centenaire de la Grande Guerre, Léon Vivien, va perpétuer de façon originale la mémoires des millions de poilus tombés pour défendre leur terre et tous ceux qu'ils aimaient".
Chi sono i poilus? Così spiega "Wikipedia" francese: "Le mot "poilu" désignait aussi à l'époque dans le langage familier ou argotique quelqu'un de courageux, de viril (cf. par exemple l'expression plus ancienne "un brave à trois poils", que l'on trouve chez Molière, de même les expressions "avoir du poil" et "avoir du poil aux yeux") ou l'admiration portée à quelqu'un "qui a du poil au ventre". Dans son ouvrage L'Argot de la guerre, d'après une enquête auprès des officiers et soldats, Albert Dauzat donne la même explication: «avant d'être le soldat de la Marne, le "poilu" est le grognard d'Austerlitz, ce n'est pas l'homme à la barbe inculte, qui n'a pas le temps de se raser, ce serait trop pittoresque, c'est beaucoup mieux: c'est l'homme qui a du poil au bon endroit, pas dans la main!». C'est le symbole de la virilité. Ce terme militaire datant de plus d'un siècle avant la Grande Guerre, "désignait dans les casernes où il prédominait, l'élément parisien et faubourien, soit l'homme d'attaque qui n'a pas froid aux yeux, soit l'homme tout court". À l'armée, les soldats s'appellent officiellement «les hommes». Marcel Cohen, linguiste lui aussi mobilisé et participant à l'enquête, précisa qu'en langage militaire le mot signifiait individu. Jehan Rictus, poète et écrivain populaire fut beaucoup lu dans les tranchées. Dans ses textes, l'homme du peuple est nommé "poilu" : "Malheurs aux riches/Heureux les poilus sans pognon". Mais depuis 1914, dit Albert Dauzat qui étudiait l'étymologie et l'histoire des mots, le terme "poilu" désigne pour le civil «le soldat combattant» qui défend notre sol, par opposition à «l'embusqué»".
Il nocciolo della storia da raccontare è, invece, tutta qui: "Une histoire incroyable: le 10 avril dernier, un certain Léon Vivien, soldat en 1914 commençait à se raconter sur "Facebook". Cette expérience digitale, conçue par l'agence "Ddb Paris" pour le Musée de la Grande Guerre du Pays de Meaux a touché plus de 11 millions de personnes, en France mais aussi au-delà des frontières. Un profil de personnage fictif, mais terriblement réaliste, pour raconter de façon vivante le quotidien des poilus".
Così realistico che Léon muore in battaglia, lasciando negli iscritti al suo profilo un'enorme impressione.
L'idea era nata in questo modo: "Jean-François, un rédacteur de "Ddb" tombe sous le charme et la force de mémoire du Musée de la Grande Guerre de Meaux, qui présente, depuis novembre 2011, la collection publique la plus riche d'Europe sur 14-18. Avec une vision moins aérienne, plus humaine de la première guerre mondiale. "Ddb Paris" réalise d'abord, en novembre 2012, une campagne print choc pour le premier anniversaire du Musée. Puis, l'idée germe autour d'une opération innovante sur "Facebook". «Pourquoi les gens qui suivent des marquesqui n'ont pas toujours grand chose à dire ne suivraient pas la vie d'un soldat de 14-18 sur Facebook?», s'interroge Jean-Luc Bravi de "Ddb" (l'agence est mécène sur cette opération. Sur la base d'une documentation très riche fournie par le Musée, et avec la caution de l'historien Jean-Pierre Verney, "Ddb Paris" a en effet imaginé ce qu'un jeune français aurait posté quotidiennement si le réseau social avait existé il y a un siècle, au moment précis où un jeu d'alliances inexorables allait entraîner des millions d'hommes dans la guerre. A l'heure où 23 millions de français racontent quotidiennement leur vie à travers leurs posts et statuts sur "Facebook", imaginez ce que ces mêmes internautes, plongés subitement dans le fracas du vingtième siècle, auraient eu à raconter si le réseau social avait existé en 1914».
Il successo ha sancito la bontà dell'operazione e apre una prospettiva interessante di approccio alla grande Storia. Pensando appunto a come essa sia la sommatoria di tante storie personali, che si intrecciano con le vicende più vaste. I Social raggiungono, con efficacia, anche chi di certe vicende storiche ha sentito parlare, in modo distratto, solo sui libri di scuola e li può, nella simulazione, avvicinare come fa con la quotidianità.

Le troppe violenze

Gli ostaggi in vetrina durante il sequestro nella cioccolateria a SydneyIl matto che ha colpito in Australia vive attorno a noi. Non è stato, in quel caso, una pedina inserita in un sofisticato gioco di costruzioni terroristiche, e mi riferisco a quel filone islamico che farà passare un Natale di preoccupazione in tutte le grandi città dell'Occidente e che ha colpito, invece, ieri - con un'azione schifosa e da pusillanimi - in una scuola in Pakistan.
Si sa, tornando a noi, che il clamore che è necessario per certa violenza è legato purtroppo a certi periodi di festa e il Natale resta la grande festa della Cristianità. Non mi stupisce che si legga sui giornali che Papa Francesco sia stato avvolto da una rete di protezione di grado elevato proprio per quella logica simbolica, pure di dialogo interreligioso, che si è trovato ad interpretare senza peli sulla lingua. Come quando ha chiesto agli esponenti di spicco dell'Islam di non avere atteggiamenti reticenti e lo ha fatto ad Istanbul, visitando con grande umiltà le moschee.
Sono, come tutti, preoccupato da questa dose massiccia di violenza cieca che ci attornia. Non nascondo di aver già avuto in passato, se non la paura vera e propria almeno il timore. Ricordo gli "anni di piombo" in cui mi trovai a fare il giovane cronista di una radio a Torino e vivevi questa cappa, che creava in tutti un senso di viva insicurezza. Il culmine fu, molti anni dopo, il giorno delle Torri Gemelle, quand'ero al Parlamento europeo e restai nel mio ufficio, malgrado il fuggi fuggi nei corridoi perché si era sparsa la notizia falsa che anche quello potesse essere uno degli obiettivi dei terroristi. Stessa preoccupazione che ho avuto negli aeroporti in tante occasioni o mentre giravo in grandi città, come Parigi o Londra, in periodi in cui scoppiavano bombe su treni o metro.
Oggi viaggio meno, ma quando mi capita mi accorgo di guardarmi attorno senza la serenità che uno dovrebbe avere. Per altro, la cronaca nera quotidiana dimostra quanto il grado di violenza prescinda purtroppo dalle grandi questioni internazionali e sia penetrata nel tessuto connettivo della nostra società, anche laddove un tempo le cose erano molto più tranquille. Esiste ormai, anche in una piccola realtà come la Valle d'Aosta, una persistente microcriminalità, fatta di furti e rapine, che sarà pur cosa minore rispetto a realtà urbane dove la criminalità picchia duro. Ma non è neppure bene che ci si debba dotare di antifurto e telecamere perché rubare nelle case è ormai fatto ordinario o che in discoteche e palchetti ci siano specialisti di risse, che fanno rimpiangere i "badola" di paese che si limitavano un tempo a qualche scazzottata. Oggi bisogna aver paura anche di uno scambio di epiteti in auto, se uno ti taglia la strada. Mi sono convinto che la certezza della pena è l'unico antidoto per chi non ha più alcun senso civico o di civile convivenza e conosce solo la Legge e le sue sanzioni.
Il moltiplicarsi di morti di bambini, di donne, gli stupri collettivi e cose di questo genere stanno minando il bene prezioso della libertà, che consiste anche nella serenità di potersi muovere e di poter andare dove si vuole con chi si vuole. In più, in questo mondo alla rovescia, ci sono troppe patologie mentali che non sono curate. Come non pensare a quel tabaccaio valdostano, Enrico Rigollet, massacrato di botte nel suo esercizio commerciale a Torino, dopo un piccolo diverbio con un cliente, finito in fretta in tragedia. Nessun rimpianto per i vecchi manicomi, dove si viveva come nei peggiori gironi danteschi, ma non è neppure concepibile che le persone non si curino. Penso, per dire del disagio fra noi, alla raffica di suicidi di queste settimane in bassa Valle e a tante violenze che non sono frutto di vite criminali, ma appunto di problemi mentali seri.
L'analisi è quella che è, ma non ho purtroppo ricette per risolvere le questioni né a grande scala né nella logica di vicinanza. Trovo, però, che non ci si debba rassegnare alla rassegnazione e che, partendo dal piccolo, si debba in qualche modo ricucire il tessuto connettivo di ogni comunità. Partendo dal basso, si ha qualche speranza in più di successo.

Un dibattito sull'autonomia speciale

Il giornale "Trentino-Alto Adige" (che esce in due edizioni per Provincia autonoma) ha pubblicato oggi, come mi aveva chiesto il suo direttore, Alberto Faustini, che ha aperto un dibattito sul futuro della loro autonomia speciale, un mio contributo, pubblicato in prima pagina, che qui riporto.

Leggo ogni giorno il Trentino e l'Alto Adige, perché per un valdostano sapere cosa capiti ai "cugini" dall'altra parte delle Alpi è un dovere. Con vivo interesse, dunque, ho seguito il lancio della discussione sull'Autonomia, proposta intelligentemente ed al momento giusto dal direttore, Alberto Faustini.
Mi sono detto: perché non intervenire? Ed eccomi qua a proporvi qualche riflessione. Lo faccio, perché consapevole del fatto che le autonomie speciali, la vostra come quella della Valle d'Aosta, sono legate a filo doppio e gli uni devono sapere sempre cosa fanno gli altri e, se possibile, concertare azioni comuni. E' una storia che ho vissuto sia come deputato della Valle d'Aosta a Roma sia nel ruolo di presidente della mia Regione autonoma, così come nel mandato di parlamentare europeo.

Registrazione Tribunale di Aosta n.2/2018 | Direttore responsabile Mara Ghidinelli | © 2008-2021 Luciano Caveri