October 2014

I giorni del ricordo

Papa Giovanni Paolo II sofferenteQuando ero bambino, questi giorni autunnali che precedono il periodo del ricordo dei morti erano occasione per tristi pensieri. Il giro dei cimiteri e discorsi familiari sugli scomparsi mi mettevano una vaga angoscia. Prendeva in sostanza corpo quell'angolo della casa - un muro nello studio - dove nel tempo aumentavano le foto dei morti, cui la mia famiglia era più legata. Quadretti che - lo dico tra parentesi - mia madre ottuagenaria, Brunilde, ha fatto sparire o perché non c'era più posto sul muro per la numerosità dei defunti o perché a una certa età avere fantasmi in giro non fa piacere.
Ricordo in particolare un periodo in cui avevo sentito che mio papà, che sarà stato quarantenne, aveva un piccolo problema cardiaco e io - in questo periodo di fine ottobre - mi ero posto per la prima volta di fronte alla morte. La stessa cosa avvenne quando per la prima volta mi portarono da vicino a "vedere un morto" e quell'immagine di uno zio steso lì nella bara e del Rosario recitato attorno al feretro mi avevano angosciato mica da ridere.
Ma è capitato anche di vedere diversamente la questione. Anni fa, per motivi politici, feci una cena con rappresentanti di pompe funebri per certi loro problemi amministrativi e mi confortò la conferma che la gran parte di loro - in parte per reazione - risultassero dei simpaticoni. Non vi dico la faccia degli altri avventori del ristorante, mentre questi mi spiegavano delle bare che devono avere gli sfiati per non scoppiare o della distanza necessaria fra cimiteri e case abitate. Ma tutto in un clima ridanciano, che mi ha convinto di come ogni lavoro vada preso con filosofia.
Poi, con il passare degli anni, la morte e i morti ti sfiorano con crescente regolarità e non c'è logica cui appigliarsi. L'unico elemento positivo è che non ci si pensa sempre. Anche se, nel flusso del tempo, qualche calcolo, per quanto astruso lo fai, su quanto potenzialmente hai ancora da vivere. Ma, trattandosi in fondo di una sorte di "roulette russa" con meccanismi impenetrabili, son pensieri che passano non avendo certezze su come e quando quel traguardo arriverà.
Oggi da adulto, facendo una trasmissione su Sentimenti e Stati d'animo, non potevo che scegliere - con Elena Meynet - il tema ostico del Dolore in questo periodo così evocativo. Domani in radio su "RaiVd'A" le voci sul tema non saranno banali: da un inviato su scenari di sventure come Mimmo Candito alla medicina popolare (una serie televisiva sul tema sta avendo un successo di pubblico) con Anna Montrosset, dalla Storia con Paolo Momigliano Levi all'agopuntura e il dolore "orientale" con Giuseppe Lupi.
Brani musicali e contributi sonori in tema consentiranno di ricordare il dolore e una persona straordinaria come Giovanni Paolo II e un luogo terribile come Auschwitz.
E' da notare come, dopo secoli e secoli, con quell'americanata di Halloween - ormai praticata anche da noi - torna una dose omeopatica di quelle radici celtiche che sono parte del passato della Valle d'Aosta e alle origini di quella mascherata del "dolcetto scherzetto", che oggi pare uno sberleffo rispetto al mesto arrivo del Novembre.
E' vero, però, che gioia e dolore si inseguono nella staffetta degli eventi. Ha così ragione Kahil Gibran a osservare: "Quanto più a fondo vi scava il dolore, tanta più gioia potete contenere".
Speriamo, quando capita, che sia così.

Le disillusioni sul nuovo secolo

Eric HobsbawmQuest'anno, tra il centenario dallo scoppio della Prima guerra mondiale e il conto alla rovescia per i settant'anni dalla conclusione della Seconda, non mancano di certo gli spunti per riflettere sul secolo scorso, il Novecento. Ma questa finisce per essere un'occasione per riflettere sul nuovo secolo che stiamo vivendo, che era iniziato con grandi speranze quel 1° gennaio del 2000, che suonava come una svolta.
Ricordo a questo proposito la nota definizione del Novecento come "secolo breve", che è del 1994, quando lo storico e scrittore inglese Eric Hobsbawm scrisse un libro con quello stesso titolo.
L'autore notò come il secolo risultasse ristretto fra due date: la prima guerra mondiale (1914) non a caso nota come la Grande Guerra e il crollo dell'Unione Sovietica (1991) con lo sconvolgimento di rapporti geopolitici consolidati. Vi era poi, a giustificare la "brevità", la quantità e la densità di eventi del ventesimo secolo e anche gli enormi progressi e cambiamenti tecnologici, sociali, politici ed economici avvenuti in poco tempo. Non mi stanco mai di dire che nessuna generazione come quelle del dopoguerra ha subito tanti di quei "crash test" per via dei cambiamenti da far impressione.
Allo scoccare del primo secolo di un nuovo millennio si pensava ad un cambio di marcia della nostra umanità, mentre ora appare sempre più vero quanto scritto dal giornalista e scrittore Enzo Bettiza: "Il Novecento, definito da Hobsbawn "secolo breve", si sta invece rivelando lungo, lunghissimo. Stermini, esodi, carestie, guerre regionali infinite, malattie e miracoli inauditi: non si può costringerlo nella camicia di forza della brevità, facendolo coincidere quasi al millimetro con la durata del comunismo reale. Il secolo passato si è innestato su quello attuale, senza soluzioni di continuità. Ecco perché il nichilismo dolce e pigro di questi anni zero del ventunesimo secolo non può esprimerlo, se non stancamente".
Se oggi ci guardiamo attorno non si può che dire che molte illusioni stanno svanendo ed esiste in effetti una sconcertante continuità con un secolo che tutti avremmo avuto voglia di dimenticare per sempre per la sommatoria di errori e orrori. Guardiamoci attorno: la crisi economica e finanziaria morde ancora, in politica svaniscono certezze e riferimenti, è difficile trovare lavoro e sapere cosa consigliare ai giovani per i loro studi. Le Istituzioni sono messe in discussione, che sia una Regione autonoma come la Valle d'Aosta con la sua specialità o l'Unione europea con il suo percorso d'integrazione. Non è la difficoltà di adattarsi alle mutazioni rapide di scenario, quanto la preoccupazione per vuoti che non si riempiono.
Ci sono date che inquietano, come l'11 settembre 2001, con gli attentati negli Stati Uniti e quell'estremismo islamico che oggi infiamma il Medio Oriente con una guerra diffusa e un terrorismo sanguinario sull'uscio. E poi in questo secolo abbiamo già avuto le guerre in Afghanistan e in Iraq, oltre a numerose "guerre locali" con nodi insoluti come la vicenda israelo-palestinese. Ora ci mancava la guerra fratricida in Ucraina e una Russia aggressiva che guarda ai suoi ex territori ora Europa.
Intanto proprio sul Vecchio Continente si rovescia parte della povertà e del dolore del Terzo Mondo con l'immigrazione dei "barconi", cartina di tornasole della forza delle Mafie che strangolano il mondo. L'Italia ne è un dolente esempio.
Tante paure minacciano le nostre vite e ci si mettono pure le sciagure di vario genere e epidemie che periodicamente appaiono.
Bisogna, di conseguenza, rassegnarsi al pessimismo? No, grazie. Si tratta, però, di prendere atto della realtà e di rifiutare qualunque forma di edulcorazione, genere indorare la pillola (i farmacisti di un tempo coprivano i medicinali dal gusto cattivo con una pellicola d’oro…).
Non è bastato, purtroppo ed era già illusorio, un cambio di calendario a esimerci da tante vicende che ci opprimono.

Bastian Contrario

Un girasole 'bastian contrario'Mi è capitato spesso di essere Bastian Contrario: trovo che sia segno di vitalità e anticonformismo. Ma da dove venisse l'espressione non lo sapevo e ho cercare di scavare per capire la sua origine, considerandola - e ora si vedrà che non avevo torto - un piemontesismo, usato anche qui da noi.
In una domanda sull’origine del modo di dire, così si esprime l'"Accademia della Crusca" e mi inchino alla loro scienza: "per quanto riguarda l'espressione "bastian contrario" siamo di fronte ad un meccanismo di coniazione popolare basato sulla trasformazione da nome proprio a nome comune: il punto di partenza è certamente il nome di un uomo (Bastiano, nella forma derivata da Sebastiano con caduta della sillaba iniziale) che, per la sua attitudine ostinata ad essere contrario a tutto, diviene proverbialmente il simbolo di questo atteggiamento. La derivazione dal nome proprio è dimostrata anche dalla sporadica presenza della maiuscola iniziale, riscontrabile nell'uso e registrata in alcuni dizionari".
Poi si scava ancor di più nell'uso: «la prima attestazione dell'espressione "bastian contrario" risale al 28 febbraio 1819, in un intervento di Ludovico di Breme apparso sul numero 52 del giornale "Il Conciliatore" con il significativo titolo "Ai Signori associati al Conciliatore il compilatore Bastian-Contrario". Nel 1918 Alfredo Panzini, nella terza edizione del suo "Dizionario moderno", cita l'espressione popolare e dialettale "Bastiàncontrari" come "detto di persona che contraddice per sistema" e, a partire dalla settima edizione (del 1935), integra: «Bastiàncuntrari: pop. detto nelle terre subalpine di persona che contraddice per sistema. Fu in fatti un Bastiano Contrario, malfattore e morto impiccato, il quale solamente in virtù del cognome diede origine al motto".
La concomitanza dell'uso dello pseudonimo-personaggio da parte di Ludovico di Breme e l'aggiunta di Panzini spingono a collocare la nascita dell'espressione nell'Italia nord-occidentale, in particolar modo in Piemonte: lo suggeriscono anche i vocabolari del piemontese che registrano in modo pressoché costante l'espressione fin dagli inizi dell'Ottocento a fronte del silenzio riscontrato negli altri dizionari dialettali e di lingua; e lo confermano anche alcuni esempi dell'uso di bastiano citati da Bruno Migliorini nella sua monografia "Dal nome proprio al nome comune" (Genève, Olschki, 1927, 230 pagine)".
La diffusione poi piano piano cancella le origini: "ma bastiancontrario (o bastiancontrario) si è diffuso nell'italiano in modo così ampio da aver perso qualunque connotazione locale e da essere anzi sottoposto a vari tentativi di appropriazione regionale (ad esempio è inserito in certe raccolte lessicali toscane e fiorentine) che hanno finito per rendere ancora più difficile la ricostruzione esatta della sua origine. Sull'identificazione del personaggio si sono fatte poi infinite ipotesi: c'è chi ha proposto il brigante sabaudo Bastian Contrario, che su incarico del Duca Carlo Emanuele di Savoia avrebbe condotto dal 1671 un'azione di disturbo nelle zone di confine con la Repubblica di Genova (un'ipotesi che valorizza l'origine piemontese); altri invece, all'interno del processo di "fiorentinizzazione" dell'espressione, pensano al pittore fiorentino Bastiano da San Gallo, a causa del suo peculiare carattere...".
Su "Wikipedia" si aggiunge un elemento interessante: "a Torino il Bastian Contrario (in piemontese "Bastian Contrari", pronuncia: "bastiàn cuntràri", per antonomasia è considerato il Conte di San Sebastiano, che nella battaglia dell'Assietta (1747) fu il solo a disobbedire all'ordine di ripiegare sulla seconda linea. Il gesto del Conte e dei pochi fedeli granatieri da lui comandati determinò l'esito favorevole di tutta la battaglia contro l'esercito franco-ispanico. L'episodio ha ispirato anche un altro detto tipico riferito alla popolazione piemontese, quello di "bogia nen" (pronuncia: "bùgia nèn"): l'espressione significa letteralmente «non muoverti!» e col tempo è diventato sinonimo di caparbietà (in senso positivo) o di ottusità (in senso negativo) a seconda dei contesti".
Vedete, come nelle cose della vita, la possibilità di un uso duplice, persino opposto, della medesima espressione. Ecco perché messaggini, "Tweet", interventi su "Facebook", poste elettroniche e tutto il resto mai potranno superare l’espressività di un volto o la modulazione di una voce, che ci consente di distinguere come in un certo caso quella locuzione debba essere contestualizzata.
E quindi bisogna sorriderne o aggrottare la fronte.

Le moderne Catene di Sant'Antonio

E’ interessante come i "social" sortiscano oggi moderne "Catene di Sant'Antonio", che si diffondono in un battibaleno sul Web, che siano scritti, foto o filmati. Ma questo riguarda anche mode e tendenze.
Ma facciamo un passo indietro, ricordando che cosa sono state le "Catene di Sant'Antonio".
Così dice "Wikipedia": "Le Catene di Sant'Antonio traggono il proprio nome (nella lingua italiana) dal fenomeno che consisteva nell'inviare per posta lettere ad amici e conoscenti allo scopo di ottenere un aiuto ultraterreno in cambio di preghiere e devozione ai santi (Sant'Antonio è considerato uno dei santi oggetto di maggiore devozione popolare)".

Lo Stato che aggredisce

Graziano Delrio e Sergio ChiamparinoNon c'è un dio cattivo e sanguinario, come fa il "Moloch" delle religioni mediorientali con sacrifici umani, dietro alle vicende politiche che sono alla base dell'attuale aggressione dell'autonomia speciale della Valle d'Aosta. E' un mostro diverso, equiparato proprio al "Moloch" ma nell'analisi politica, che venne anzitutto definito dal pensatore inglese Thomas Hobbes «il Leviatano», dal nome del mostro marino dell'Antico Testamento, nel suo celebre libro del 1651.
Si tratta niente altro che dello Stato, questa forma di organizzazione politica che oggi - a cinque secoli di distanza da quei pensieri fondativi dello Stato moderno - soffre per la sua evidente inadeguatezza fra comunità che reclamano dal basso un loro ruolo e una mondializzazione che richiede decisioni di taglia più grande, come può essere l'Unione europea.
Quando sento parlare di "Patto di stabilità" (o come reso caricaturale in "Patto di stupidità"), di tasse locali dei Comuni valdostani forzatamente trasferite a Roma, di tagli feroci al Bilancio regionale con "prelievi" che violano le norme d'attuazione, certamente mi indigno. Queste scelte, che poi non sono solo finanziarie perché vi è un vero e proprio arrembaggio contro poteri e competenze, non sono frutto del Caso e della sua capricciosità, come potrebbe essere un'inondazione o un'invasione di cavallette.
Sono l'esito di scelte governative, che spesso spingono sull'acceleratore di decisioni prese a Bruxelles, che passano - con o senza fiducia poco conta nella sostanza dal Parlamento italiano - dove, tra l'altro, siedono due parlamentari valdostani. Sono le norme e non la cattiveria astratta degli uomini a pesare oggi come dei macigni. E' vero che le leggi seguono l'aria dei tempi e il venticello contro il regionalismo e il sistema degli Enti locali sembra acquisire ancora maggior vigore quando la discussione concerne le autonomie speciali.
Il presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino, che presiede anche la "Conferenza delle Regioni" e in quel ruolo dovrebbe essere garante anche delle "Speciali", in un recente convegno si è lasciato andare ad un «si dovrebbe affrontare la questione delle Regioni a Statuto speciale, anche perché come dice il film di Alain Resnais "La guerra è finita". A sessantasei anni penso che un rivisitazione si possa fare».
A parte che la citazione del film è sballata, essendo buono solo il titolo, perché la pellicola riguarda in realtà gli anni Sessanta e dunque non c'entra nulla con il secondo dopoguerra, colpisce l'idea che al posto di elevare il regionalismo ordinario verso un regionalismo più forte si voglia "livellare" al ribasso quella sola fiammella di federalismo che l'ordinamento italiano ha nelle autonomie speciali. Ma nelle stesse ore anche l'algida ministra delle Riforme, Elena Boschi, nientepopodimeno che alla "Leopolda", dice: «aboliamo le Regioni autonome», avendo a fianco la povera presidente del Friuli -Venezia Giulia, Debora Serracchiani, astro nascente del "renzismo", ma votata in una Regione dove si crede alla specialità. Per cui un comunicato successivo ha sancito un imbarazzante quanto improbabile "dietro front", che non nasconde che cosa si pensa davvero. Resta, infatti, l'evidenza che due esponenti di spicco legati all'attuale Governo si infilano in questo filone di pensiero, che un tempo era appannaggio della parte più retriva della Destra. Ma ormai le definizioni sono difficili da dare agli schieramenti politici, che sono come le carte che escono a casaccio giocando a briscola. Destra e Sinistra, tutto traballa...
Resta scolpito nei miei pensieri quanto scritto dal grande Montesquieu, filosofo e politico settecentesco, di cui ho visto di recente la statua nella natia Bordeaux: «Une chose n'est pas juste parce qu'elle est loi; mais elle doit être loi parce qu'elle est juste». Questo è il punto: il continuo stillicidio, dalla legislazione alla semplice circolare, di atteggiamenti statali ostili alle autonome speciali va combattuto non solo perché viola norme costituzionali e Statuto speciali in vigore, ma perché questa scelta distruttrice è ingiusta. La storia di certe comunità e di certi popoli, come quello valdostano, ha una profondità ben più grande delle attuali organizzazioni statuali e oggi che lo Stato mostri il suo volto feroce nel nome di un centralismo efficace e salvifico ci deve sinceramente preoccupare. E conferma - se mai ce ne fosse stato bisogno - quanto questa attitudine, come il Lupo travestito da nonnina di Cappuccetto Rosso, si stia sempre più svelando, dopo l'ubriacatura del federalismo verbale di pochi anni fa.
Il «che fare?» è evidente: si tratta di reagire colpo su colpo. Evitando, se possibile, il finto unanimismo e la sceneggiata dei fazzoletti con cui asciugarsi gli occhi. Tenendo conto delle responsabilità a Roma come ad Aosta, per alcuni le lacrime sono di coccodrillo o causate da una bella cipolla cavata dalla tasca.
E' bene, perciò, operare dei distinguo anche nel necessario sforzo corale.

La contaminazione culturale

Claude Levi-StraussCon buona pace di chi non sopporta l'evidente americanata, segnalo che la gran parte dei giovani - così mi arriva dal rapporto coi miei figli, vedette generazionali - festeggiano Halloween. L'occasione di divertimento è più forte di qualunque analisi e, per chi lo fa, l'occasione di travestimenti mostruosi è una possibilità che non si perde. Poco spazio ha, invece, quella storia dei bimbi in giro per "dolcetto scherzetto". Manca proprio il necessario retroterra culturale.
So quanto si potrebbe dire su questo e segnalare come, nella prossimità della Festività dei Morti, la rappresentazione grottesca della Morte potrebbe suonare irrispettosa e a poco varrebbe rievocare, come alibi, quella parte di radici celtiche da cui deriva questa festa e di cui la Valle d'Aosta ha certamente fatto parte nei secoli di storia di cui, però, sappiamo poco. Nei ragazzi che si apprestano a divertirsi esiste una buona fede: non è qualche cosa "contro".
Per altro, diciamo la verità, anche rispetto al culto dei morti ci sono molte trasformazioni in atto. Pensiamo solo al diffondersi della pratica della cremazione - cui personalmente aderisco, ma spero il più tardi possibile... - che oggi lega familiari ed amici non solo alla tradizionale tomba, ma anche al luogo fisico dove lo scomparso ha chiesto venissero sparse le sue ceneri. Veniamo travolti, in questo come in molti altri casi, da costumi e abitudini che non ci appartengono. E' il frutto della mondializzazione, che crea una grande contaminazione culturale. Fenomeno sempre esistito nel contatto fra i popoli, ma il livello planetario e la velocità di diffusione sono enormemente diversi. Internet, in particolare, diffonde con grande rapidità (ne parlo nel "Calepin" qui a fianco) tutte le novità. Ci sono aspetti assai positivi e aspetto meno edificanti. Cito appunto nel "Calepin" i clown aggressivi, che si sono diffusi sul Web in maniera virale, mentre l'altro giorno - come elemento positivo - discutevo con un medico che mi raccontava delle enormi potenzialità della telemedicina e dell'e-learning (l'apprendimento attraverso sistemi informatici) per la formazione sanitaria nei Paesi del Terzo Mondo, dove si muore ancora per un nonnulla.
Oggi l'unica contaminazione che sembra fallire, per la vittoria di una visione tragicamente isolata di cui l'estremismo islamico è esempio tangibile, è fra noi e una parte consistente del mondo musulmano. E anche chi respinge certe visioni violente e pericolose sembra non avere - anche qui da noi - quella capacità di reagire sempre e comunque contro chi della loro religione fa una bandiera di guerra. Una timidezza che talvolta sfocia nell'ignavia o in una forma persino di simpatia velata.
In "Tristes tropiques", libro del 1955, il celebre antropologo francese Claude Lévi-Strauss, uomo che certo non può essere accusato di grettezza o di chiusura, scriveva queste righe che fanno impressione: "Tout l'Islam semble être, en effet, une méthode pour développer dans l'esprit des croyants des conflits insurmontables, quitte à les sauver par la suite en leur proposant des solutions d'une très grande (mais trop grande) simplicité. D'une main on les précipite, de l'autre on les retient au bord de l'abîme. Vous inquiétez-vous de la vertu de vos épouses ou de vos filles pendant que vous êtes en campagne? Rien de plus simple, voilez-les et cloîtrez-les. C'est ainsi qu'on en arrive au burkah moderne, semblable à un appareil orthopédique avec sa coupe compliquée, ses guichets en passementerie pour la vision, ses boutons-pression et ses cordonnets, le lourd tissu dont il est fait pour s'adapter exactement aux contours du corps humain tout en le dissimulant aussi complètement que possible. Mais, de ce fait, la barrière du soucis est seulement déplacée, puisque maintenant, il suffira qu'on frôle votre femme pour vous déshonorer, et vous vous tourmenterez plus encore. Une franche conversation avec de jeunes musulmans enseigne deux choses: d'abord qu'ils sont obsédés par le problème de la virginité prénuptiale et de la fidélité ultérieure; ensuite quele purdah, c'est-à-dire la ségrégation des femmes, fait en un sens obstacle aux intrigues amoureuses, mais les favorise sur un autre plan: par l'attribution aux femmes d'un monde propre, dont elles sont seules à connaître les détours. Cambrioleurs de harems quand ils sont jeunes, ils ont de bonnes raisons pour s'en faire les gardiens une fois mariés".
Ma poi la questione si fa ancora più di sostanza: "Grande religion qui se fonde moins sur l'évidence d'une révélation que sur l'impuissance à nouer des liens au-dehors. En face de la bienveillance universelle du bouddhisme, du désir chrétien de dialogue, l'intolérance musulmane adopte une forme inconsciente chez ceux qui s'en rendent coupables; car s'ils ne cherchent pas toujours, de façon brutale, à amener autrui à partager leur vérité, ils sont pourtant (et c'est plus grave) incapables de supporter l'existence d'autrui comme autrui. Le seul moyen pour eux de se mettre à l'abri du doute et de l'humiliation consiste dans une "néantisation" d'autrui, considéré comme témoin d'une autre foi et d'une autre conduite. La fraternité islamique est la converse d'une exclusive contre les infidèles qui ne peut pas s'avouer, puisque, en se reconnaissant comme telle, elle équivaudrait à les reconnaître eux-mêmes comme existants".
Sono elementi su cui riflettere per affrontare la realtà di quelle contaminazioni non volute, che spingono anche giovani islamici, cittadini di seconda o terza generazione in Occidente, a combattere contro le società dove sono nati e cresciuti per l'odio verso l'"infedele".

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