October 2014

Dire - Fare - Baciare - Lettera - Testamento

Matteo Renzi e Maria Elena BoschiAlzi la mano chi non ci ha mai giocato! Un classico passatempo da bambini, che si trascina per qualche anno, è quello del "dire - fare - baciare - lettera - testamento". Un modo di pagare la penitenza è per il "sotto a chi tocca" quello di subire, secondo il caso, una delle cinque opzioni possibili. Sono i compagni di gioco a decidere poi l'applicazione delle pene sul punto specifico.
Se il gioco venisse applicato a Palazzo Chigi e al suo inquilino pro tempore, Matteo Renzi (Palazzo Vecchio, da sindaco di Firenze, era ancora più bello!), così si potrebbe immaginare lo svolgimento.
"Dire": dire qualche cosa per il Capo del Governo e nel contempo segretario dei Democratici non è un problema. Per lui non vale di certo il verso del suo concittadino Dante Alighieri. «Perché mi guardi e non favelli?». Lui parla e twitta su argomenti i più vari, facendo della sua forza di comunicazione l'asse portante della sua leadership politica. La più terribile delle imposizioni dei suoi amici sarebbe quella del "silenzio". Che è per altro un altro gioco infantile: il gioco del silenzio. Ogni tanto ci starebbe, visto anche il rischio di sovraesposizione in televisione che piomba come una mannaia.
"Fare": fare qualche cosa è un punto delicato. Il grande rimprovero degli osservatori della politica italiana e dei suoi oppositori, compresi quelli che sono nel suo stesso partito, è che fortissimo sul "dire" casca proprio sul "fare". L'"effetto annuncio" è multiforme e a getto continuo, mentre proprio l'aspetto fattuale scricchiola. Per cui la cartina di tornasole è rappresentata ormai da due punti che sembravano dati per certi: il primo è l'abolizione delle Province, che appare ormai evidente siano rinate dalle proprie ceneri, senza più meccanismi di elezione da parte dei cittadini; la seconda è la legge elettorale per l'elezione del Parlamento, chiamata "Italicum", che viene data per approvata ad ogni stormir di fronde, ma non si fa mai. So che suo fossato fra il "dire" e il "fare" si potrebbe scrivere un trattato. Ma lo smemorato non è lui.
"Baciare": baciare qualcuno è la più maliziosa delle prove. Nei primi brividi verso l'altro sesso, questa storia del bacio era la grande attesa, nella speranza di finire bene e senza scherzi barbini, tipo un maschietto (all'epoca non c'era il "politicamente corretto") o l'amica brutta (idem come precedente parentesi). Dato per assodato che un bacio alla bella ministra Maria Elena Boschi sarebbe gradito ad ogni maschietto ed è un riconoscimento alla sua bellezza botticelliana, carognescamente si potrebbe dire che oggi il bacio più atteso e mai venuto riguardava gli alluvionati di Genova e del Polesine. Ma baci e fischi stridono.
"Lettera": si scrive con il dito una lettera sulla schiena di chi paga il pegno, il quale deve decifrare il messaggio. Dopodiché la lettera viene affrancata con una bella pacca sulla spalla e spedita con un calcio nel sedere! A chi scrive il nostro Renzi? Beh, Angela Merkel mi pare scontato, ma potrebbe essere anche Barack Obama e per scritto l'inglese renziano potrebbe andare meglio dell'orale, per il quale i voti sono stati bassi e le risate tante. Per adesso - a meno che mi sia sfuggito qualcosa - non ha ancora scritto agli italiani, come fece ripetutamente Silvio Berlusconi, con cui il nostro fiorentino ha stipulato il "Patto del Nazareno" e si vocifera - ma lo dirà la Storia - di un "patto di sangue" scritto. Ma con l'inchiostro.
"Testamento": è in genere - al di là del l'evocazione funebre - la penitenza più dolorosa, perché bisogna subire i dispetti dei compagni, in genere botte. Chi paga il pegno, infatti, volge la schiena ai compagni che nel frattempo decidono delle penitenze fisiche (calci, pugni, sberle, ma anche - più raramente - baci, carezze...). Uno di loro chiede: «Quanti ne vuoi di questi?» ed il "penitente" risponde un numero da uno a dieci, senza sapere di cosa si tratti. Che cosa fare a Renzi è difficile dire, ma che cosa chiedere con aria minacciosa lo so bene: «Sbaglio o l’impostazione della "Legge di stabilità" puzza lontano un miglio di voglia di elezioni anticipate?».
Che poi - intendiamoci - meglio quelle che i pastrocchi.

Il Paese dove le mucche sono regine

L'arena 'Croix noire' ripresa col drone della Questura di AostaGuardavo, giusto ieri pomeriggio in un prato, una placida mandria di mucche al pascolo. E' un'immagine agreste tradizionale, rassicurante nella sua fissità e nello scampanio ipnotico, per chi abiti in Valle d'Aosta, dove il mondo rurale è a portata di mano. In queste ore, semmai, quel che colpisce è l'improvvisa flamblé di caldo di una "estate di San Martino" anzitempo o, come la chiamano i francesi, di "été indien" o "des Indiens" di matrice nordamericana, ricopiata dall'inglese dai francofoni del Canada. Ne godono di sicuro anche le bovine e ne godiamo anche noi esseri umani. Mi ripeto nel ribadire quanto i colori autunnali e l'azzurro del cielo esaltino i paesaggi della nostra Valle.
Se fosse possibile, mi piacerebbe molto avvicinarmi a queste "mucche normali" e chiedere loro un pensiero - verrebbe da dire un muggito - sulle loro colleghe che, incinte d'ordinanza come da tradizione, si cimenteranno quest'oggi nelle "Batailles" alla Croix-Noire di Saint-Christophe. Queste bovine combattenti, in sfide corna contro corna, nel solco di una propensione naturale da parte delle bovine più aggressive per la loro supremazia sul resto della mandria, chissà come potrebbero essere viste dalle altre, quelle che non hanno quella voglia di battersi e atteggiamenti e sguardi che mettono paura. Meglio stare loro distanti quando si battono, come ben sanno gli operatori televisivi che in modo guardingo seguono i combattimenti, che possono essere fulminei o lunghissimi, ma sempre con quelle pizzico di incertezza sugli esiti. Questo vuol dire che ci si può trovare faccia a faccia (anzi, muso) con una bovina al galoppo e se si finisce sotto c'è poco da scherzare, perché è come finire sotto una macchina in corsa.
Sono stato il primo in televisione a fare la telecronaca delle "Reines", ormai molti anni fa. Quel mondo non mi era oscuro con un papà veterinario, pure specializzato nella cura - specie di certi problemi ovarici - delle bovine da "combat". Per cui, anche per documentazione, ho approfondito il tema: chi fa una telecronaca di questo genere sa che ci possono essere buchi da riempire e bisogna sapere come farlo e cosa dire. Da politico - confesso - ho sempre fatto il mio dovere di presenza o di premiazione, specie alla finale. Ma ho avuto colleghi che, invece, non perdevano un'eliminatoria o per vera passione o nella convinzione di tirar su dei voti. Le foto conclusive con le vincitrici vedono talvolta più politici addossati alla "Reina" che proprietari festanti.
In queste ore, ma con una piccola particina, parteciperò alla diretta dei "Programmi", che ho l’onore di guidare, fra le 9.45 e le 11.30 di questa mattina su "Rai3" negli spazi - debitamente allungati - in dotazione a "RaiVd'A" (poi dalle ore 18 alle 19 la telecronaca vera e propria sarà nelle mani della redazione). Ci sarà questa volta il pullman dell'esterna di Bologna, in passato c'erano state Torino e Milano, e i miei colleghi Marco Brunet, Katia Berruquier (cui spetta gran parte della nostra diretta) e Gianfranco Ialongo dovranno fare agli amici bolognesi un piccolo corso accelerato su che cosa siano le "Reines" e come si svolgerà il lungo pomeriggio delle eliminatorie fino al far della sera, se non della notte.
Oggi sarà una giornata di sole e dunque l'attesa sarà comunque piacevole. Una giornata interessante per tutta un'area geografica attorno al Monte Bianco, dove - come diceva un libro sul Valais, ma vale anche per noi e la Savoia - si trova "le Pays où les vaches sont Reines".

Divorziato? Rimandato

Papa Francesco durante il sinodo con i vescoviHo seguito con interesse l'esito del Sinodo dei Vescovi, svoltosi a Roma. Par di capire, perché si è votato sul documento finale, in latino "Relatio Synodi", che questi lavori si svolgano come avviene in un'assemblea parlamentare. Ed anche il fatto che sul testo base si siano votati centinaia di emendamenti modificativi dà il segno che la similitudine con un consesso legislativo sia piuttosto azzeccata. Pur sapendo della Chiesa quel che ho studiato e letto, confesso che avrei una viva curiosità nell'assistere a lavori di questo genere, tenendo conto che davvero un consesso così ha, come la Chiesa, un respiro universale, raramente rinvenibile altrove.
Aspettavo in particolare di vedere che fine avremmo fatto noi peccatori divorziati risposati, visto che appartengo alla categoria. Avevo letto le aperture che sul tema aveva periodicamente espresso Papa Francesco e anche le posizioni diverse annunciate da alti prelati più tradizionalisti. Ero convinto che la forza innovatrice del Papa argentino avrebbe pesato verso una decisione di apertura. Invece, un passaggio del documento finale dimostra che si è deciso di non decidere, proprio per la mancanza dei voti necessari per far passare eventuali novità. Così si legge, laddove si cita la questione, centrale per il suo valore simbolo e anche concreto, dell'Eucarestia: «va ancora approfondita la questione, tenendo ben presente la distinzione tra situazione oggettiva di peccato e circostanze attenuanti».
I campi erano due: quello del "no" netto perché contrario ad un atteggiamento ormai assestato e chi, invece, proponeva l'ammissione a questo sacramento con la logica di arrivarci dietro ad un "cammino penitenziale". Si sarebbe trattato - così mi ha spiegato un amico addentro a queste questioni dottrinarie - di non avere sul punto una norma di carattere generale, ma di prevedere per ciascun "peccatore" (le virgolette sono mie) un percorso personalizzato che consentisse di definire se la persona fosse o no adatta a essere riammessa in toto nei meccanismi rituali del cattolicesimo.
Ma hanno vinto i più tradizionalisti e il Papa, abbozzando, ha sostanzialmente detto «ne riparliamo più avanti» e mi permetto di dire che è comunque stata per lui una battuta d'arresto nel tentativo di modernizzare la Chiesa. Per altro, si sa ed è un fatto oggettivo, che gran parte delle regole dettate nei secoli sono scelte molto umane, come dimostrato con chiarezza da strade diverse che sono state imboccate su diversi argomenti dalla Chiesa ortodossa, dalle chiese evangeliche e dall'anglicanesimo. Tutti cristiani ma con elaborazioni differenti, che hanno creato dissidi e guerre ed anche i cattolici non si sono fatti mancare nulla.
Dunque è normale che al suo interno, ma anche nel confronto con un mondo che cambia sempre, il cattolicesimo debba far fronte con modificazioni di norme e atteggiamenti all'umanità e alle società che cambiano. Sapendo che non c'è un pensiero unico, ma a tante posizioni diverse, che devono - esattamente come in politica, anzi è politica - trovare una soluzione unificante. Se non ci si riesce è giocoforza rinviare le decisioni, in assenza appunto di umane (e non divine) formule di compromesso.
Insomma, come moltissime persone, sono stato rimandato. Non me ne dolgo, anche perché - nel rispetto di tutti gli altri - ho una mia versione di approccio alla religione, che risente naturalmente della mia formazione cattolica, ma ritiene che nel consesso civile ci siano norme e regole che vanno rispettate senza avere la copertura della religione e del pentimento annesso. Esiste, in questo senso, un dovere di etica "laica", che talvolta chi è stato cattolico proclamato in politica, magari sbandierando le sue idee con esagerata ostentazione (sono, con definizione di Molière, dei "tartufi", che non c'entrano con il profumato fungo), non ha seguito per l’alibi di sentirsi "protetto" altrove. Nei doveri civici sarebbe bene seguire anche il... profano e poi - per dirla tutta - che il sacro sia davvero "perdonista" rischia di essere un azzardo per chi ne fa un abuso.

Lo statalismo antiregionalista

In un Paese normale, ammesso e non concesso, che dovesse continuare la "tosatura" delle Regioni, già ampiamente spiumate negli anni passati, il premier - chiunque esso fosse - avrebbe dovuto chiamare i presidenti delle Regioni e delle Province autonome e dir loro: «vi chiediamo un salasso ulteriore, cosa ne dite, cosa ne pensate?».
Invece Matteo Renzi, come Silvio Berlusconi e Mario Monti, ma con l'aria di chi se ne sbatte delle critiche, ha fatto tutto da solo, smentendo un accordo raggiunto poche settimane fa con il presidente piemontese, Sergio Chiamparino.

Politica e TV

Matteo Renzi da Barbara D'Urso a 'Domenica live'I talk show politici vanno a picco negli ascolti e lo stesso vale per la vendita dei quotidiani, specie quelli più politicizzati (fra questi alcuni sono persino defunti). E' questo un segno evidente che, comunque la si giri, si afferma ormai una crescente disaffezione verso la politica, i politici e i loro annessi e connessi.
Esiste una stanchezza di fondo che non sembra dissolversi e ormai l'antipolitica, che ha le sue sacrosante ragioni, è diventato un genere giornalistico e letterario che fa cassetta, ma con rappresentazioni non sempre oggettive da gettare in pasto a un pubblico famelico. Rispetto alle grandi inchieste sul tema, le ricopiature successive perdono di qualità e diventano spesso solo un condensato di acredine e di populismo. Ed il rischio è quello solito di "buttare via il bambino con l'acqua sporca"...
Le uniche trasmissioni televisive che resistono sono i contenitori di intrattenimento, come è avvenuto con Matteo Renzi da Barbara D'Urso (che gli dava incredibilmente del "tu" ed era un'adorante "zerbino") a "Domenica Live" su "Canale 5". Renzi non è nuovo in queste comparsate in trasmissioni non politiche sulle orme dell'altro grande comunicatore di questi anni, Silvio Berlusconi. Risulta evidente che lo stesso Cavaliere - proprietario del gruppo "Mediaset" - deve avere dato una sorta di lasciapassare al premier fiorentino. Sarà interessante, nei prossimi anni, capire bene questo strano rapporto fra i due: Berlusconi probabilmente si vede riflesso allo specchio in Renzi o forse lo lusinga per evitare elezioni anticipate mentre il centrodestra è alle cozze? Ci sono mille sfumature intermedie e si arriva fino alla teoria di una sorta di volontaria eutanasia di Forza Italia dello stesso Berlusconi a favore di un lasciapassare per il suo impero televisivo sotto l'assedio di "Sky". E se ci fosse anche, all'ombra del "Patto del Nazareno", un'amnistia?
Certo, la televisione li accomuna con un uso colloquiale ed ipnotico, fatto di simpatia e annunci bomba e con un'occupazione massiccia di spazi televisivi che in Italia sono regolamentati nel dettaglio assai minuto solo in periodo elettorale. Ho sempre criticato il meccanicismo ridicolo della "par condicio", che soffoca il giornalismo, ma è anche vero che le regole deontologiche e alcuni fondamentali da giornalismo anglosassone in Italia non valgono, specie nei "contenitori", a caccia di ascolti con scemenze ed orrori miscelati senza nessuna regola di buonsenso, come nei circhi ottocenteschi, quando si esibivano esseri umani con diverse disabilità per suscitare emozione e spavento. Quando il giornalismo o presunto tale scivola nella "melma" (volevo usare un altro termine con la "emme"...), la rincorsa fra gli uni e gli altri non si sa mai dove finisca.
La televisione, però, come la sua sorella più giovane Internet, contiene una sua spietatezza ed è la memoria degli avvenimenti. Questa è già per Renzi - come ha scritto tempo fa "Panorama" e ci è tornato su "L'Espresso" questa settimana, in una coincidenza bipartisan - una spina nel fianco: ogni effetto annuncio, amplificato con una strategia di marketing da tavolino (scherzosamente battezzata "occupy tv"), cui si aggiunge una propensione renziana a dare per fatta ogni idea che gli viene, risulta "congelata" e la sua riuscita o il suo fallimento emergeranno "ex post" con un'evidenza che non potrà essere smentita.
A questo si aggiunge un effetto televisivo studiato dai massmediologi: la sovraesposizione da televisione. Non è solo materia per "Agcom", l'Autorità sulle comunicazioni che vigila anche sui rischi di palesi violazioni anche in periodo ordinario - a favore di "Tizio" o "Sempronio" - con provvedimenti correttivi, ma lo è appunto per chi studia la circostanza in cui per un personaggio esiste, verso l'opinione pubblica, un livello di presenza sullo schermo che fa scattare una reazione del genere "il troppo stroppia". E' un tasso difficilmente calcolabile, che segue non solo micragnosi minutaggi nelle presenze, ma che attraversa i telespettatori come qualcosa di simile ad uno stato d'animo.
Specie se gli annunci o almeno una loro buona parte assomiglieranno, alla fine, al grido «al lupo, al lupo» della celebre favola, che così finiva con la penna di Esopo: «ma i contadini, credendo a un altro scherzo, non si mossero più. Indisturbati, i lupi, fecero strage di pecore e agnelli».

Comuni, montagna e vitalità

Il primo ministro francese, Manuel VallsMi spiace che l'anno scorso non siano stati festeggiati i vent'anni dall'ottenimento della competenza esclusiva sull'ordinamento degli Enti locali, ma lo capisco perché si sarebbe dovuto festeggiare - eresia! - anche chi vi scrive, quale autore materiale di quella modifica.
Una riforma statutaria che, rispetto al vecchio Statuto del 1948, ha riportato in mano al Legislatore regionale, cioè il Consiglio Valle, una materia importante, che è servita a chiudere il cerchio di un disegno democratico. In sostanza si è tagliato quel cordone ombelicale dei nostri Comuni verso Roma - e non solo per la legislazione ma anche rispetto all'occhiuta presenza del Ministero dell'Interno - con la possibilità di avere un assetto originale del sistema autonomistico, che tenga conto anzitutto della dimensione montana ed alpina.
Tutto il gran parlare della riforma degli Enti locali - compresa la legge elettorale comunale ed i numeri degli eletti, che è il problema attuale - deriva da questa possibilità. Altrimenti - che sia chiaro - ci sarebbe stata imposta dal centro quella congerie contraddittoria di norme susseguenti con conseguenze molto gravi sulle nostre "collettività locali" (come si dice da noi con un francesismo). Ho seguito, sin da quando ero deputato, la gran discussione su cosa fare e dopo un periodo di grande effervescenza seguita alla riforma si è avuto di fatto una sorta di congelamento del problema in attesa di una grande riforma, che in parte si è già concretizzata. La logica che ne deriva, con una legge regionale dell'agosto scorso in via di applicazione e che è in buona parte farina del sacco dell'Union Valdôtaine Progressiste, è il mantenimento dei 74 Comuni con una logica di collaborazione, in parte obbligatoria, derivante da un livello definito - anche se mi sembra linguisticamente brutto - "Unités des Communes valdôtaines".
Penso che questa costruzione giuridica servirà anche al dibattito nazionale sulla montagna e le sue istituzioni, che continua ad essere uno dei problemi centrali. E non è solo una questione nostra, come ben visibile dalla discussione in Francia sullo stesso tema. Ma lì i temi montani sono così sentiti che gli eletti della montagna francesi, nella vicina Savoie, hanno avuto, con un lungo e articolato discorso di chiusura, il primo ministro francese, Manuel Valls, a termine dei loro lavori.
Così il giornale "Le Dauphiné" ha riassunto alcuni temi: "La réforme territoriale: Manuel Valls a confirmé que le projet de loi permettrait aux zones de montagne de constituer des intercommunalités sans atteindre le seuil des 2.000 habitants comme il était prévu. Il s'est engagé à défendre une réforme de la dotation globale de fonctionnement des communes qui reconnaîtrait leur effort sur le plan environnemental. Lors d'un échange le matin même avec la presse régionale, il a assuré qu'il n'était pas hostile aux projets de fusions de départements, comme il en est question en Savoie et Haute-Savoie. «Il peut y avoir de la diversité, à condition que la volonté soit des deux côtés». La "Pac": la réforme de la Politique agricole commune vise à prendre encore mieux en compte les particularités des zones difficiles. Un thème sur lequel le ministre s'est longuement entretenu avec les éleveurs rencontrés jeudi soir et hier matin dans les Bauges. Ils lui rappelaient le coût généré par la production agricole en montagne malgré leur effort pour développer des filières de qualité mettant en valeur les paysages. Les médecins de montagne: la loi de financement de la sécurité sociale 2015 devrait contenir des mesures d'aides à l'installation de médecins dans les zones isolées. Le numérique: le plan pour le "Très haut débit" a pour objectif d'équiper tous les foyers d'ici à 2022, grâce à une enveloppe de 20 milliards. «Il n'est pas normal que l'on privilégie d'abord les villes au détriment des territoires éloignés. Mais c'est aussi à vous de faire pression sur les opérateurs, qui doivent tout à l'État et aux collectivités». Les vacances scolaires: le calendrier des vacances d'hiver et de printemps est l'objet de critiques récurrentes de la part des élus et professionnels des stations de ski. «J'ai demandé à la ministre de vous recevoir et d'entamer une discussion sur ce sujet»".
Sono questioni molto concrete, che mostrano una visione "nazionale" del tema montagna, che in Italia - malgrado lo sforzo meritorio dei parlamentari che se ne occupano - stenta ad affermarsi ed è incredibile che questo avvenga nella Francia centralista.
Quel che è certo è che anche la Valle d'Aosta deve riflettere di più sulla "sua" montagna. Il mantenimento in vita dei Comuni più montani - quelli senza il grande turismo - è un tema capitale, non risolvibile salvando l'esistenza dei Comuni come istituzione, ma come comunità. Questa necessità prevede una riflessione complessiva sui nostri modelli di sviluppo per evitare che certi Comuni esistano in futuro solo più sulla carta, morendo pertanto di consunzione, ma restino invece organismi vitali.

Troppe mafie

La zona di Pila dova la Polizia ha fermato i ladri di rameHo molto apprezzato l'indagine, con blitz notturno, condotta dalla Questura di Aosta, contro una banda di ladri di rame romeni, che si trovavano nella zona di Pila, tornando con sfacciataggine dove avevano già provato un "colpo". Un'azione ben studiata quella della Polizia, che ha condotto all'arresto di cinque persone, che davanti al giudice hanno solo detto - bella scoperta la loro! - di «agire su commissione». Potrebbero essere gli stessi figuri che, ancora negli scorsi giorni, hanno saccheggiato alcuni cimiteri in Valle d'Aosta di rame e dire che chi fa queste cose merita pene esemplari è dir poco. Trovo ributtante e mi prudono le mani pensare a chi che si aggira, come se niente fosse, in mezzo alle tombe per rubare.
Visto che a me piace scorrere la cronaca dei giornali locali di tutta Italia, questa storia dei furti di rame è una costante dappertutto e non a caso, già anni fa, è nato al Viminale un "Osservatorio nazionale sui furti di rame". Un articolo di qualche tempo fa scriveva "Wired": "Il rame è diventato a tutti gli effetti un tesoro che fa gola alle organizzazioni criminali. Oltre a essere considerato il miglior conduttore elettrico e termico dopo l'argento, è resistente alla corrosione, robusto e flessibile e può essere riciclato al cento per cento senza perdere le sue capacità. Non è magnetico, è facilmente lavorabile e duttile. Inoltre, è batteriostatico, cioè combatte la proliferazione dei batteri sulla sua superficie; è impermeabile ai gas ed è facilmente piegabile, e non invecchia se esposto alla radiazione solare. Ha un'area di esportazione vastissima: è richiesto dall'Europa dell'est (in particolare Polonia, Germania, Austria e Ungheria) fino in Cina e in India. La filiera di questo mercato è vasta e molto organizzata: piccoli ladri rubano il rame che poi lo rivendono a rottamai e grossisti fino a cinque euro al chilo. Da qui, il metallo viene spedito in fonderia oppure lavorato sul posto. Una volta trasformato in anonime barre, il rame viene esportato all'estero, dove viene rivenduto e rimesso nelle diverse catene riproduttive. Il metallo viene lavorato, trasformato, riutilizzato in videogiochi, telefonini di ultima generazione o nei cavi che alimentano gli impianti fotovoltaici di mezzo mondo. E' possibile, inoltre, che il rame esportato rientri in patria e venga rivenduto all'interno di altri oggetti".
Pare che il coordinamento nazionale e l'azione di contrasto capillare sul territorio diano buoni risultati, anche se evidentemente il problema non è solo colpire chi compie i furti, ma risalire pazientemente alla filiera di chi acquista e riutilizza il pregiato metallo. Quel che appare evidente è come ormai alle organizzazione criminali italiane - vedi mafia, 'ndrangheta, camorra, sacra corona unita ed altre simili - si siano sommate e sovrapposte, in reti di alleanza e in concorrenza fra loro, le nuove Mafie d'importazione. Se entrate nel sito di "Libera", l'associazione storica antimafia creata da don Luigi Ciotti, vi prende l'infarto, perché si spiega - con un colpo d'occhio che mette assieme un affresco da paura - come da una trentina d'anni si sono sviluppate, specie nella zona del centro-settentrione (il Sud è già altrimenti presidiato...). Si comincia con la mafia albanese (prostituzione, droga, traffico d'armi, furto d'auto, rapine in ville), si prosegue con la mafia romena (stessi reati di quelli precedenti, ma con particolare violenza verso le ragazze avviate alla prostituzione, ridotte in schiavitù), si segnala anche la mafia bulgara in connessione con elemento di etnia "Sinti" (sfruttamento dei minorenni per furti, borseggi e accattonaggio e contrabbando). L'elenco prosegue con la mafia nordafricana: la parte nigeriana si distingue per lo sfruttamento della prostituzione e per il trasporto della droga, quella maghrebina anche per l'immigrazione clandestina, come ben si sa di questi tempi. Vi sono poi la mafia sudamericana (spicca ovviamente per la droga), quella russa (che investe in Italia soldi di provenienza illecita) e infine quella cinese (che si distingue per gioco d'azzardo, prostituzione coperta da sale massaggio, contraffazione di marchi in attività commerciali).
Un quadretto davvero preoccupante, che crea vivo allarme in qualunque cittadino onesto, compresi quegli immigrati di quei Paesi, che si trovano "bollati", come capitava in passato agli onesti valdostani, che nel mondo venivano talvolta accomunati a chi, arrivando dall'Italia, esportava la mafia dei propri Paesi d'origine.
E' triste da dirsi, ma oltre alle ovvie attività di prevenzione e di "intelligence", ci vogliono inchieste articolate e al processo condanne esemplari, oltreché espulsioni certe e accordi, quando possibile, per far scontare la galera ai delinquenti nei loro Paesi d'origine, che in certi casi è un deterrente mica da ridere.
Altrimenti bisognerà rassegnarsi al "rischio Far West" con una vita blindata e piena di timori, e non è una gran cosa.

L'albero genealogico e le nostre radici

Ognuno ha il suo alberoOggi fatemi volare su di un tema forse etereo, ma che ha sua levità, perché ci dice da dove arriviamo e magari un giorno qualcuno farà lo stesso con me.
E' stata mia figlia, con la sua bella "R" "a la française", a dettarmi la linea: «Fai l'albero genealogico». In sostanza questo rispondeva ad una duplice esigenza: un interesse per capire come si situa la sua presenza nella rete parentale e poi - temo - serva a farmi smettere di elucubrare su chi fosse "Tizio" piuttosto che "Sempronio". Saggiamente propone - e confesso che qualche gesto scaramantico mi è scappato... - "Scipta manent, verba volant", come si dice, vista anche l'età del sottoscritto.
Trovo, smanettando sul Web, addirittura dei corsi per imparare a farli questi alberi e rinvengo uno slogan, che trovo molto bello, che dice «dalla ricerca delle radici nascono gli alberi genealogici». Il termine "genealogia" - nel suo utilizzo attuale - risale al XV secolo e ad essere precisi - da dizionario etilomologico - si tratta della disciplina che si occupa dell'origine e della discendenza di famiglie e stirpi. Viene dal latino "genealŏgĭa", che a sua volta attinge dal greco "genealogía - ricerca della discendenza", composto da "geneá - stirpe, discendenza" (da cui "genia") e "logía - studio". L'incrocio con "albero" è evidente, perché era difficile immaginare una modalità diversa per dare sistematicità agli incroci.
Io ho nel mio ufficio una copia, tra l'altro restaurata e dunque perfetta, dell’albero genealogico della famiglia De La Pierre alias Zumstein, fatto a Gressoney-La-Trinité nel 1857 da Jacques de La Pierre, con la precisazione - che mi pare davvero germanica - che l'albero è stato fatto il 7 maggio! Immagino, visto che la ricostruzione parte dal 1430 (con Jean, notaire ducal, originario di un paesino sul Lac de Bourget in Savoia), che quella data sia quella conclusiva del lavoro! In cima all'albero risulta anche la mia bisnonna "épouse Caveri", mio bisnonno.
Così ho cominciato, ma fra breve chiederò ai miei figli un supporto nella ricerca documentale, perché in un albero più aggiungi dei pezzi e più nei aggiungeresti. Ho un amico ad Ivrea che ricerca sui Curtaz da tantissimi anni e mi pare che dietro ogni angolo ne trovi un altro. Non ho altrettante ambizioni.
Per altro, almeno per quel che riguarda i Caveri, le due foglie al maschile - ma ormai il cognome potrebbe non morire con la legislazione italiana vigente e con quella in fieri, anche nel caso di sola discendenza femminile - sono Laurent e Alexis, che mi auguro saranno prolifici.
In verità da quella parte dell'albero il grande lavoro di ricerca è stato fatto da mio zio Sèverin Caveri, nelle premesse al suo libro "Souvenirs et Révélations", quando - per descriversi - ha scavato nei De La Pierre - Zumstein, nei Gallo, nei Caveri (ma non cita il cartografo Nicolò, nato nella seconda metà del XV secolo, che all'epoca si pensava fosse "Caverio" o "Canerio"), nei Roux - Prat - Jourdain, nei Rebogliatti - Piacenza - Barillier. Lo fa con garbo ed ironia e a me è servito per le caselline dell'albero in costruzione. Ma mancano molte date e tante caselline, che con tempo e pazienza cercherò di riempire per non deludere Eugénie, che parrebbe voler fare l'archeologa...
L'esperienza è utile per vedere quanti "zig zag" abbiano fatto quelli di cui, per dritto o per rovescio, sono indegno discendente. Manca molto sul ramo materno dei Luzietti, mia nonna Ines, marchigiani. Vorrei sapere qualcosa di più sulla nonna materna, una Roux, Clémentine, il cui papà era di Oulx. E poi naturalmente su quei Caveri in movimento fra Moneglia e Genova, oltre alla curiosità finora inespressa per pigrizia di quel "Caverius" (ma in altri posti risulta "Cavarius") indicato come fondatore a Nîmes in Francia del paesino, che si chiama "Caveirac", nel département du Gard nella région Languedoc - Roussillon. In quella zona, però, qualche Caveri - da altri indizi sui siti di ricerche parentali - nel passato sembra esserci stato e forse qualcuno di loro partì per gli Stati Uniti. E questo apre la stura sugli altri Caveri, quelli partiti per emigrazioni distanti dalla Liguria, che sono a Buenos Aires e in Patagonia. Poi ogni tanto mi interrogo, ma sono fantasie, su questo fiume Kaveri (ma anche scritto Caveri) in India.
Ma ci penserò, un giorno.

"Quando la Cina..."

Ingorgo a Shangai«Quand la Chine s'éveillera, le monde tremblera». Se si parla della capacità dei politici, talvolta, di avere una visione previsionale, allora torna in mente questa frase pronunciata da Napoleone Bonaparte nel 1816 - dopo la sua definitiva caduta - mentre era imprigionato nell'Isola di Sant'Elena, in mezzo all'Oceano Atlantico, dove morirà cinque anni dopo. Il Generale aveva letto un libro di viaggi di un ambasciatore della Gran Bretagna, Lord George Macartney, che aveva guidato nel 1792 la prima missione commerciale britannica in Cina, voluta dal re Giorgio III.
Un altro politico e ambasciatore, Alain Peyrefitte, scrisse nel 1973, un libro non a caso e analogamente intitolato "Quand la Chine s'éveillera, le monde tremblera".
Un altro tassello, che poi è stato nell'ultimo mezzo secolo composto con una velocità pazzesca e che ha confermato l'affacciarsi sul mondo della potenza cinese, che resta difficile da capire sospeso oggi fra comunismo liberticida e capitalismo rampante. Mi è capitato - solo per parlare di un argomento che conosco - di parlare con amici africani, che segnalano come il loro continente oggi sia letteralmente invaso dall'affarismo cinese. Altro elemento macroscopico, anche per chi non è uno specialista, sono stati i Giochi olimpici del 2008 e l'Expo mondiale del 2010. Ricordo, quando ero europarlamentare e Romano Prodi era presidente della Commissione, un pomeriggio in cui ci raccontò in dettaglio di un suo viaggio a Shangai in cui ci spiegava le nuove frontiere di sviluppo impressionante di quel mondo. Lo stesso fece, anni dopo, l'allora rettore del Politecnico di Torino, Francesco Profumo, quando trattavamo l'utilizzo del rinato cotonificio di Verrès per ospitare l'Ateneo. Nei suoi numerosi viaggi in Cina era rimasto impressionato dalle ambizioni e dall'organizzazione, che può contare su un capitale umano enorme. Ho poi parlato con valdostani che sono stati là - chi specialista di agopuntura, come Giuseppe Lupi, o Martina Merlet, che si occupava di turismo e impianti a fune - ed ogni volta ne ho ricavato, pur non essendoci colpevolmente mai stato, l'impressione di un gigante destinato sempre più a muoversi ed è quanto, sempre più, sta avvenendo.
Sono quattro gli aspetti che possono investire un comunità piccola come quella valdostana. La prima, la più banale, è il diffondersi di una rete di commercio cinese, che pare avere quella disponibilità finanziaria che altri non hanno e un'impressionante frugalità di vita e di sopportazione di ritmi di lavoro molto elevati. La seconda - a cavallo fra comunità cinesi in Italia e cinesi provenienti dalla Madre patria - riguarda la Casa da Gioco di Saint-Vincent, che accarezza due diverse clientele: quella di provenienza da grandi città italiane, con limitata capacità di gioco, ma con una forte propensione al vizio e poi quella di provenienza dalla Cina, via Macao, il loro tempio del gioco d'azzardo, con inquietudini di diverso tipo per questa clientela "vip" capricciosa e pure inquietante per eventuali traffici finanziari sottostanti. Persino in Cina sono state poste norme severe sull'antiriciclaggio e l'Europa è severissima sul tema. Il terzo filone, che può essere in parte legato a quest'ultimo, è di come nelle Alpi ci si farà concorrenza per accogliere flussi di una clientela, che certamente sarà incuriosita dalle nostre montagne, mano a mano che crescerà il reddito medio e sarà facilitata l'uscita dal Paese. Clientela che può avere volumi impressionanti, ma anche problemi di accoglienza e di mediazione culturale per niente semplici.
Infine la vecchia questione del rapporto, per quel che resta, dell'industria locale con quella gigantesca realtà e non mi riferisco, perché ne ho troppo parlato, alla scelta della grande compagnia energetica valdostana, "Cva", di approvvigionarsi con materiale di provenienza cinese. Il tempo chiarirà bene queste questioni e le loro implicazioni. Mi riferisco, semmai, alle aziende che agiscono in Valle è che hanno provato la delocalizzazione con alterne fortune, altri invece si confrontano con la concorrenza delle produzioni laggiù e questo può riguardare settori di lavorazioni metalmeccaniche importanti e anche la siderurgia.
Si tratta, come sempre in questi casi, di capire bene di studiare i dossier, perché ci sono certamente - come in tutto - rischi ed opportunità in questo rapporto con la Cina. Ma quel che premia è sempre approfondire le cose e non fidarsi solo del proprio fiuto, ma avvalersi di chi conosce davvero le cose.
Manca, insomma, un disegno.

Tradizione e rinnovamento

La manifestazione della 'Cgil' a RomaFa impressione constatare che, con la "Leopolda" di Matteo Renzi a Firenze e con la contemporanea manifestazione della "Cgil" a Roma, la Sinistra italiana confermi di poter essere partito di lotta nelle piazze e di Governo nei palazzi del potere.
Una situazione che ricorda la scultura del "Giano Bifronte", di cui è bene ricordare la figura mitologica. Così ne ha scritto, su "Lettera43", Cettina La Fata: "Antica divinità italica e romana, il primo dio romano che, secondo la mitologia classica, giunto a Roma via mare dalla Tessaglia, nonché la principale divinità del Pantheon. Tale divinità all'interno della società romana aveva un enorme importanza, sia nella sfera pubblica che in quella religiosa romana. Egli era il custode di ogni forma di mutamento, e il protettore di tutto ciò che concerne una fine e un nuovo inizio".
Ma ecco il passaggio più importante: "Dal punto di vista iconografico, Giano viene rappresentato come una divinità bicefala, una caratteristica che lo accomuna alle divinità indiane del periodo pre-vedico, rappresentato quindi con una testa e due volti, due volti simili ed entrambi barbuti, di aspetto sereno, che secondo la leggenda consentono al dio di vedere il futuro e il passato".
Questi due volti della Sinistra potrebbero essere facilmente oggetto di una semplificazione da vulgata popolare o da manipolazione mediatica: Renzi è il nuovo e la "Cgil" il vecchio. Per molti versi ci sta, sia per la giovane età del premier per ricoprire questa sua carica e con lui c'è una nidiata di giovani avvezzi alla società in cui politica e spettacolo (ma anche parte del business, come si vede da certe norme) si fondono sia perché, dall'altra, c'è un sindacato gerontocratico che non riesce più a essere interlocutore politico e rappresentativo del mondo del lavoro. Eppure, per chi si considera progressista in chiave federalista, questi due volti così schematizzati e senza sfumature non convincono affatto. Scrivevo, giorni fa, di come ognuno di noi acquisisce a pieno il senso di esistere, qui ed oggi, se conta su delle radici consapevoli e salde.
Ogni rivoluzione è fallita, forse con l'eccezione della rivoluzione americana, proprio per il "nuovismo" senza identità e senza memoria. Pensiamo alla rivoluzione culturale cinese e alla sua cieca violenza distruttiva. Ecco perché l'ideologia del "nuovismo" (il termine "rivoluzione" è nel lessico renziano) funziona se si tratta di un ponte fra passato e futuro.
Nel caso della "vecchia" società italiana questo significa, anzitutto, un patto fra generazioni e mettere assieme "tradition et renouveau". Sapendo che ci sono vecchi giovanissimi e giovani vecchissimi: non è solo un fatto anagrafico. E di certo è sempre dall'incontro fra l'energia vitale e le esperienze della vita che può sortire il meglio.
Questo in Valle d'Aosta ha un suo perché in più. Siamo una comunità che invecchia e molti giovani che qui crescono, per origine familiare, non conoscono le ragioni dell'autonomia e bisogna renderli compartecipi di un progetto futuro per la Valle d'Aosta. Non è semplice, perché si tratta di un coinvolgimento che prevede integrazione, però nel rispetto di ogni elemento di novità che risulta essenziale, perché non vi è nulla di congelato nel tempo che sia davvero fresco. Da questo emergerà la Valle d'Aosta che verrà ed è bene pensarci.
Il giorno per giorno, navigando a vista, è logorante e infruttuoso.

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