October 2014

House of Cards

Kevin Spacey in 'House of cards'La Televisione, come dimostrato persino dalle dimensioni sempre più grandi di quello che fu all'origine un elettrodomestico, continua ad avere un ruolo essenziale nella nostra vita. E l'interazione inevitabile con la Rete porterà su quello schermo, come per ora avviene in modo limitato, un sacco di cose in più rispetto al già notevole proliferare di canali televisivi.
Ognuno guarda quel che vuole ed esiste la legge democratica del telecomando e pure l'opzione di tenere spenta la televisione. Poiché un pochino me ne occupo, in una ristretta programmazione regionale, resto convinto che, senza fare i moralisti da strapazzo, qualcosa di vero - e lo è di certo per la "missione" specifica del servizio pubblico - c'è in una frase di vent'anni fa di Karl Popper che diceva: «chiunque sia collegato alla produzione televisiva deve avere una patente, una licenza, un brevetto, che possa essere ritirato a vita qualora agisca in contrasto con certi principi».
Ogni tanto, guardando la televisione in modo mirato e con parsimonia, mi vien da dire: «ma a questa produzione o a questo Tizio chi gli ha dato la patente?». Ciò significa, per fortuna, che resto un telespettatore vigile a fronte di molti che si fanno ancora ipnotizzare.
Come molte persone, seguo di questi tempi la seconda serie, in onda su "Sky Atlantic", di "House of Cards - Gli intrighi del potere". E' una serie televisiva americana per il servizio di streaming "Netflix", un nuovo modo di fare televisione, rispetto a quello tradizionale, ispirato ai libri di una trilogia dello scrittore inglese Michael Dobbs, cui era seguita una miniserie televisiva britannica ("Netfix France" sta girando qualcosa di analogo sulla politica francese a Marsiglia). Da noi in Italia penso che la realtà superi da tempo ogni fantasia.
Se su "Sky" vi sono due puntate di seguito il martedì sera, negli Stati Uniti la prima stagione è stata interamente resa disponibile il 1º febbraio dello scorso anno ed il 14 febbraio di quest'anno è stata messa in Rete per gli abbonati tutta la seconda stagione e sono molti gli spettatori che hanno fatto una vera e propria maratona notturna per vedersi, tutte una di fila all'altra, le puntate.
La storia è semplice nel suo fine ultimo e cioè il "Potere" con la "P" maiuscola: il deputato del Partito Democratico Frank Underwood (interpretato dal celebre attore, Kevin Spacey) è capogruppo di maggioranza al Congresso e ha diretto la vittoriosa campagna elettorale di Garrett Walker, diventato il 45º presidente degli Stati Uniti. Non gli viene però affidato l'atteso incarico di segretario di Stato, per cui scattano una serie di vendette e riesce anche, fra mille storie collaterali a diventare vice presidente. Nella parte della moglie Claire è la seducente attrice Robin Wright.
Qualche tempo fa, Matteo Renzi - che non ci fa mai annoiare - aveva detto nel corso di una Direzione del PD: «proporrei di riprendere un'idea di Walter Veltroni e poi di Pier Luigi Bersani su cui non abbiamo fatto niente, che è quella della formazione politica. Dobbiamo individuare un numero fisso di persone da formare con strumenti tradizionali di formazione politica ma anche con le serie televisive americane, so che qualcuno si mette mani nei capelli, ma imparare anche un racconto è importante».
Si scoprì, tempo dopo, che si riferiva proprio alla serie di cui sto parlando e proprio l'autore, il già citato Dobbs, gli ha risposto a breve giro di posta: «le mie storie non sono un manuale di istruzioni. Quando ho saputo che Renzi aveva comprato una copia del mio libro a Roma, ho ritenuto prudente mandargli una nota per ricordargli che il libro è solo intrattenimento e non un manuale di istruzioni».
Trovo la precisazione giustissima: nessuna persona che faccia politica con correttezza e sulla base di elementari principi democratici potrebbe ritrovarsi nei metodi di Underwood, che usa persino l'omicidio come strumento per liberarsi delle persone scomode e usa la menzogna come elemento essenziale della rete di rapporti e di traffici con una serie di "fedelissimi" degni di finire in galera. Spesso, ancor prima di guardare come sia fatto il "Capo", basta guardare al suo "entourage" per sentire puzza di bruciato. Credo che la visione, anche appassionante della serie televisiva, sia e debba restare "intrattenimento" per quella logica piuttosto noir che rende intriganti anche i personaggi malvagi.
Ma farne oggetto di studio per chi voglia formarsi alla politica appare grottesco e infondato. La formazione è una chiave essenziale per chi voglia far politica e occuparsi di amministrazione: anche in questo caso, come per chi si occupa di televisione, bisognerebbe esigere una patente o una licenza. Capisco che è un'iperbole irrealistica e che gli elettori non sempre scelgono sulla base delle reali competenze e pure tenendo conto di quella che dovrebbe essere una precondizione per chi si trova in mano denaro pubblico, vale a dire l'onestà personale. Ma esigere cultura e conoscenze - e per fortuna competenti ce ne sono - non è un gioco classista o "ad excludendum": spesso la politica non è un percorso che derivi da chissà quale formazione scolastica o cattedratica. Ma non vale neppure l'idea che il vuoto assoluto, la semplice simpatia, la superficialità siano elementi da prendere come se nulla fosse. Per poi lamentarsi della della classe politica, che è niente altro che - con il bene e con il male - l'elettorato allo specchio.

Ebola

Un medico si protegge dal virus 'Ebola' ripreso da una telecameraL'altro giorno un amico medico, Marco Sarboraria, che conosce in profondità la tragedia sanitaria africana, mi ha spiegato di "Ebola". E di come questa malattia, anzitutto, sia ben diversa da affrontare qui da noi - dove le strutture assicurano il massimo della scienza medica - o in Paesi in cui la situazione delle cure e dell'assistenza è ridotta al lumicino. Lo ha fatto evocando anche, con la giusta memoria, la figura coraggiosa della biellese, valdostana di adozione, Maria Bonino, che dopo studi specifici sulla medicina tropicale, agiva con grande generosità e competenza in diversi Paesi africani. Sino alla morte, avvenuta il 24 marzo 2005 a Luanda, in Angola, perché colpita dal virus di "Marburg", una malattia simile proprio al virus "Ebola". In suo onore è sorta una "onlus" che si occupa dei bambini africani, specie quelli colpiti da malnutrizione.
Questo virus "Ebola", scoperto nel 1976, agisce, con un'epidemia vera e propria, dal mese di aprile del 2014 e da allora preoccupa con casi ormai sviluppatisi in Europa e negli Stati Uniti. E' come una presenza inquietante nella nostra vita, sapendo quanti fantasmi su questa materia si agitino, specie per le minacce terroristiche che spesso si manifestano attorno all'uso per stragi di massa di terribili armi biologiche.
Traggo da un dossier scientifico dal linguaggio divulgativo, pubblicato su "Focus" alcuni elementi di sintesi.
Le caratteristiche: "E' un virus è estremamente aggressivo, appartenente alla famiglia dei "Filoviridae", come il virus "Marburg", che causa problemi simili. "Ebola" provoca una serie complessa e rapidissima di sintomi, dalle febbri emorragiche al dolore ai muscoli e agli arti e numerosi problemi al sistema nervoso centrale.
Nello specifico i sintomi di "Ebola" sono: febbre, forte mal di testa, dolore muscolare, diarrea, vomito, dolori addominali ed emorragie inspiegabili.
Il periodo di incubazione (dal momento del contagio all'insorgenza dei primi sintomi) va da due a ventuno giorni. La morte è fulminante e sopraggiunge nello stesso periodo (da due a ventuno giorni)"

Da dove viene: "Il cosiddetto serbatoio naturale del virus sono molto probabilmente le volpi volanti, grossi chirotteri che mangiano frutta e abitano le foreste tropicali; si pensa che il virus "viva" all'interno di questi animali da moltissimo tempo perché non causa in essi nessuna sintomo. Per arrivare all'uomo il virus potrebbe essere passato dalle volpi volanti alle scimmie, o altri animali della foresta, e infine all'uomo attraverso il fenomeno del "bush-meat", cioè la carne ricavata da animali selvatici come antilopi o scimpanzé. Il fenomeno si è aggravato da quando compagnie occidentali e cinesi sono penetrate nella giungla per il disboscamento e la ricerca di fonti di minerali. Mangiando la carne di questi animali gli uomini possono essere rapidamente contagiati".
Il contagio: "La trasmissione del virus è molto rapida, attraverso i fluidi corporei, come muco o sangue, ma anche attraverso le lacrime o la saliva, il vomito o le feci e il contatto con aghi o coltelli usati dall'ammalato. Anche se di solito questi virus non si trasmettono attraverso l'aria, è stata dimostrata nelle scimmie la trasmissione in goccioline contenenti il virus. E' probabile che la trasmissione possa avvenire anche attraverso i rapporti sessuali. Nei villaggi o nelle zone più remote i contatti frequenti tra gli ammalati e i parenti aiuta la trasmissione del virus".
L'inquietudine che anche da noi si possa diffondere la malattia va affrontata con una consapevolezza. Più continuerà, specie in tempo di crisi, ad allargarsi la forbice fra Nord e Sud del mondo e più, in un mondo in cui la mobilità porta rischi di più facile diffusione delle epidemie, certe vicende avranno una risonanza spaventosa. Se non si affronta alla radice il duplice problema di quella idra, che avvolge di dolore un continente come quello africano, in cui povertà e mancanza di democrazia viaggiano tristemente a braccetto.

Tutto scorre

Un esempio di come 'tutto scorre'Ormai se parli di speculazione ti vengono in mente le vecchie immagini caotiche (oggi è tutto un glaciale operare via computer) delle Borse tra urla e gesti forieri di rialzi, ribassi e fregature per i risparmiatori. In realtà esiste una versione buona della parola "speculazione" e cioè quel ragionare su un certo argomento, guardando - come facevano le vedette di un antico esercito - la situazione da un'altura.
Trovi uno spunto, guardandoti attorno, e torna alla mente un'espressione. E ne trovi la sintesi mirabile, meglio di come sapresti fare tu, nella solita "Treccani". Si tratta di "pànta rèi" (in greco "πάντα ῥεῖ - tutto scorre"): "Proposizione con cui si suole spesso caratterizzare la dottrina di Eraclito (ma l'espressione non ricorre nei frammenti rimasti della sua opera) sottolineando l'eterno divenire della realtà paragonata a un fiume che solo apparentemente rimane uno e identico, ma si rinnova e si trasforma continuamente. La frase è usata nel linguaggio comune (allo stesso modo che le equivalenti "tutto scorre", "tutto passa"), talora ironicamente, per alludere all'instabilità della condizione umana e all'effimera durata di ogni situazione".
Eraclito è stato un filosofo greco, piuttosto snob, vissuto fra il VI e il V secolo a. C. ad Efeso, sull'Egeo (anche se oggi si trova a qualche chilometro dal mare per via dell'interramento del porto dell'antichità), nell'attuale Turchia.
Ma la sua espressione attraversa il tempo, anche se - come detto - lui papale papale non l'ha mai usata. Io ne faccio un uso esclusivamente ironico, impiegato nei confronti di quelli che, anche in politica, si lasciano vivere, nella speranza che qualcosa capiterà. Un fatalismo che finisce per essere inazione. Mentre personalmente credo che lasciar (s)correre non sia una buona scelta. Per altro, speculare all'immagine del fiume che scorre, c'è il famoso detto cinese "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico".
Meglio essere proattivi e cioè determinare i cambiamenti piuttosto che assecondarli, subendo quel che capita. Se l'espressione "cadavere del nemico" non mi piace perché carica di una violenza che non mi appartiene, diciamo che vedere passare il proprio nemico (meglio dire "avversario"?) dentro un canotto con destinazione mare aperto non è cosa che mi turbi. Ma direi che dentro il canotto è meglio mettercelo, piuttosto pensare che ci entri da solo o operi a questo scopo il Fato (il destino, il caso, la sorte…) al posto nostro. Naturalmente - ma sembrerebbe scontato - sarebbe folle raggiungere a nuoto il canotto e condividerlo "per vedere l’effetto che fa", usando il celebre refrain di Enzo Jannacci.
Questo ragionamento della navigazione vale per la minuscola Valle d'Aosta, guscio di noce in un mare sempre più tempestoso. La situazione è così grave e degradata da lasciare senza fiato. Stupisce che questa situazione - che ha responsabili con nome, cognome ed indirizzo e motivi dei flop - non abbia ancora sortito una quarta "Révolution des Socques" (dopo quella del 1799 e delle due di inizio Ottocento), usando l'espressione in una logica contemporanea e cioè di moto popolare contro le condizioni in cui versa la Valle d'Aosta. Eppure ormai il capolinea, che riguarda la credibilità e forse pure l'esistenza dell'autonomia speciale, sta per essere raggiunto e da lì in poi ci sarà un punto di non ritorno, quando cioè si è ormai ad un punto non più reversibile di un processo. In questo la Storia dovrebbe insegnarci molto.
Per cui, ciò detto, è bene proseguire operazioni di cambiamento. Cambiamento: mutare di una situazione non gattopardismo (atteggiamento di chi in apparenza appoggia le innovazioni, ma in realtà non vuole cambiare nulla di sostanziale e mira solo a conservare tutto come prima).

Genova dolente

Il centro di Genova alluvionatoSe penso a Genova, città dolente per via dell'ennesima inondazione "annunciata", ci sono due aspetti che mi colpiscono. Benché originari di Moneglia, i Caveri hanno operato in quella città per secoli: penso al celebre cartografo Nicolò Caveri, amico di Cristoforo Colombo, che agì nella seconda metà del XV secolo o al fratello del mio bisnonno, Antonio, politico e giurista di fama (deputato, senatore, primo Presidente della Provincia e Rettore dell'Università) e al fratello di mio nonno, l'avvocato Alessandro Caveri, principe del Foro genovese.
Ma con quel che resta del ramo ligure della famiglia ho flebili rapporti a causa delle generazioni che sono trascorse. Eppure, ogni volta che mi è capitato di essere a Genova (e maggior ragione a Moneglia) ho avuto un senso di familiarità, quella logica dei déjà vu di cui ho già avuto modo di parlare.
La seconda è inerente i fatti. Intendiamoci: tragedie dovute allo scatenarsi degli elementi naturali ci sono sempre state. Basta in Valle d'Aosta vedere le annotazioni tenute dai parroci, prima che i giornali diventassero la fonte principale della cronaca. Così è accaduto anche a Genova, a leggere chi in queste ore ha fatto ricerche sul passato. Ma è indubbio che ci sia un quid in più in questi anni: i cambiamenti climatici innescano fenomeni disastrosi, che paiono essere più frequenti e con i quali dobbiamo convivere, senza più immaginare che siano eccezioni su scala secolare.
Così a Genova, come in Valle d'Aosta e dappertutto, bisogna agire nella fase preventiva, facendo tesoro delle sciagure subite e avendo consapevolezza che mai il rischio si azzera del tutto, specie di fronte ad eventi atmosferici fuori dall'ordinario.
Mai questo in Italia non si riesce a fare per almeno due ragioni. La prima è che le procedure degli appalti, già squilibrate verso la logica del ribasso e poco verso qualità delle imprese e le reali capacità di costruire i manufatti, sono in balia di mille eventi. Questo allunga i tempi e aumenta i costi. Le sciagure tornano prima che siano state realizzate le opere indispensabili per evitarle.
Secondo aspetto: i soldi e i meccanismi di spesa. Sulla difesa del suolo (che poi sono anche le persone!), dopo l'alluvione del 2000, la Valle d'Aosta aveva fatto studi e monitoraggi che avevano dimostrato costi stratosferici per la messa in sicurezza, oltre ai molti lavori già fatti in pressoché totale autofinanziamento regionale. Ebbene: lo Stato ha promesso e non mantenuto e, negli ultimi anni, ha pure tagliato in modo draconiano i trasferimenti e messo in piedi quei meccanismi di controllo del "Patto di stabilità", che congelano anche lavori pubblici indispensabili, come quelli per la messa in sicurezza del territorio, se anche ci fossero i soldi...
Così a è capitato va Genova e avverrà dove il Destino colpirà in futuro e ogni volta non resta che piangere (coccodrilli compresi...). Sapendo che anche i tagli alla "Protezione civile" nazionale sono il segno evidente del paradosso italiano di un riformismo senza priorità e spesso solo verbale. Ogni volta, quando le ferite sono aperte, si annunciano in Italia grandi novità e poi - per ripetute volte - "passata la festa, gabbato lo santo".
Ma è meglio forse, nel descrivere la situazione, usare lo spirito pungente genovese: "I gondoin e i funzi náscian sensa semenali" (Gli stupidi e i funghi nascono senza seminarli).
Stupidità che non copre le responsabilità penali.

Quando l'amore può essere terribile

Il canale dove sono stati ritrovati i due corpiOgni giorno irrompono nella nostra vita le grandi tragedie collettive del mondo. Che siano le guerre, le epidemie, le sciagure naturali. Poi ci sono le storie personali, che sono spesso esemplari di un problema più grande. Ci pensavo ieri, leggendo di questa vicenda svoltasi nelle campagne della Provincia di Rovigo. Un nonno di 73 anni si è buttato in un canale con in braccio il nipotino di cinque anni affetto da una grave malattia genetica, la "sindrome di Angelman". Un caso di omicidio-suicidio che non ha nulla a che fare con certi altri delitti, perché colpisce al cuore per gli elementi di pietas che la storia innesca.
Avviene una domenica: i genitori lasciano il bimbo al nonno per andare ad un convegno su quella malattia progressiva che ha colpito il loro bimbo. Chissà che cosa agisce nella mente di nonno Danillo (all'anagrafe registrato così, con due "elle") quando esce di casa spingendo la carrozzina con Davide.
Ci sono avvenimenti che nessuno meglio dei giornalisti locali è in grado di raccontare, meglio anche dei grandi inviati dei giornali per i quali "l'immersione" è un "mordi e fuggi". Perché il cronista del posto conosce le persone e i luoghi ed è in grado di ricostruire situazioni e descrivere i fatti con particolari che ce li avvicinano. Così un articolo non firmato di rovigooggi: "Triste incombenza per l'ispettore della Polstrada di Badia Polesine Alberto Cappellini nel riconoscere il suocero annegato con il nipote in Adigetto lungo la ciclabile di Lendinara verso Villanova del Ghebbo. Avvistati sull'acqua del canale due corpi da Nicola Pavan di Lendinara che ha dato l'allarme mentre stava facendo jogging. Al vaglio degli inquirenti le ipotesi di sciagura o gesto estremo dell'uomo".
Poi il racconto dettagliato: "Quando i vigili del fuoco li hanno individuati erano ancora stretti in un ultimo, disperato abbraccio. Sono Danillo Giacometti, 73 anni, di Lendinara, tecnico del settore saccarifero in pensione, residente in via Mosca, e il piccolo Davide Giacometti, cinque anni, residente coi genitori a Spinea in via Omerighi. Sull'accaduto sono in corso tutti gli accertamenti del caso, affidati ai Carabinieri della stazione di Lendinara e ai colleghi di Rovigo. Anche il sostituto procuratore Monica Bombana, alla luce della gravità dei fatti, ha voluto essere presente e visionare la scena del ritrovamento dei due corpi, guidata dagli investigatori. A identificare i due è stato Alberto Cappellini, ispettore capo della polizia stradale di Badia Polesine. Danillo Giacometti, il nonno, è suo suocero. Non è stato un ritrovamento casuale. Il passeggino del piccolo Davide era stato notato poco prima, non distante dal canale a Lendinara. E non si riusciva a trovare neppure Danillo. Così il tragico sospetto che fosse accaduto qualcosa di grave si è fatto strada nei parenti, che hanno avviato le ricerche".
Notate come il termine "passeggino", mentre si tratta in tutta evidenza di una "carrozzina", sembra quasi far parte dei coinvolgimento emotivo di chi racconta.
Spostiamoci più avanti: "Il primo a lanciare l'allarme per i due corpi nell'Adigetto è stato Nicola Pavan, un giovane con l'hobby del podismo che domenica nel primo pomeriggio stava correndo sulla ciclabile che fiancheggia il canale. «Mi mancavano gli ultimi due chilometri circa per arrivare - racconta - Stavo "pompando" con convinzione, mi dicevo "dai che questa volta fai il tuo record!». Poi ha visto cosa c'era in acqua. «Assieme a me ha visto anche un altro ragazzo - prosegue - Prima si è notato con chiarezza il corpo del nonno, poi abbiamo capito che ci doveva essere anche un bambino, perché si vedeva spuntare un braccio che lo teneva stretto dietro la schiena». Immediata è partita la chiamata ai Carabinieri. «L'ho fatta io - conferma Nicola - Non è stato immediato raggiungere il posto». Il sopralluogo dei Vigili del fuoco e carabinieri ha confermato il peggiore sospetto: i corpi erano due. «E' stata una visione che mi ha colpito duro - chiude Nicola - Me la rivedo ancora davanti agli occhi, come se avessi scattato una foto»".
Questa storia del l'abbraccio mortale, terribile e affettuoso, mi ha colpito molto. Non mi avventuro in discorsi avventati in questo grumo di dolore e disperazione. Penso solo ai genitori e a come e da chi saranno stati avvertiti e al loro duplice, indicibile dolore per questa vicenda.
Resta, come scolpita nelle coscienze di ciascuno di noi, l'aspetto cangiante e multiforme dell'amore: un sentimento che ti fa fare anche cose terribili.

Quel "deserto" in paesi e città

Fatemi partire da molto distante per arrivare in fretta molto vicino per un rovello che mi torna di tanto e confesso che nessuno di quelli con cui ne ho discusso mi ha offerto una soluzione innovativa.
E' interessante che la famiglia Challant, per alcuni affreschi nel castello di Issogne, chiese al pittore Colin - siamo tra la fine del XV e la prima parte del XVI secolo - di dipingere una serie di affreschi di vita quotidiana sotto il portico all'ingresso del maniero. Così, con particolari interessanti e una grande freschezza talvolta giocosa, quelle immagini ci restituiscono la bottega del sarto, la farmacia, la macelleria, il corpo di guardia, il mercato di frutta e verdura, la bottega del fornaio, dello speziale, del pizzicagnolo.
Questo dipinto è servito per capire quali fossero in particolare i costumi, i prodotti e i gusti.

Euro: un refererendum impossibile

Un manifesto del referendum irlandese del 2012 sull'euroCredo di essere abbastanza navigato per distinguere un'iniziativa politica da una decisione che possa avere un fondamento giuridico reale. Ma il distinguo dev'essere chiaro per tutti proprio per evitare equivoci fra "effetto annuncio" e possibilità di realizzazione.
E' il caso della storia, ormai ripetuta all'infinito da Beppe Grillo, sul referendum «per uscire dall'euro», rilanciata per l'ennesima volta nella assemblea del suo Movimento, svoltasi nel fine settimana al Circo Massimo. Un luogo storico romano denso di significati, dal "ratto delle Sabine" in poi, diventato in epoca contemporanea luogo per concerti, spettacoli, festeggiamenti e anche manifestazioni sindacali e politiche, come questa kermesse del "Movimento 5 stelle".
Ma dicevamo dell'euro e di questa parola d'ordine che il fondatore principale del "M5s" ha posto come pietra angolare per i mesi a venire, come ha già ripetutamente fatto in passato. L'euro, moneta europea, nasce con il Trattato di Maastricht del 1992 e l'Italia ha ratificato questo documento cardine dell'integrazione europea. La moneta è poi diventata attiva dieci anni dopo, ma la base giuridica è quella. Questo vuol dire, senza dubbio alcuno, che adoperare il referendum significherebbe, prima di poterlo fare, modificare quell'articolo 75 della Costituzione che vieta di sottoporre a referendum abrogativo le leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, come quello di Maastricht. Questa previsione vale anche per quel referendum consultivo che qualcuno ipotizza. Vi è, infatti, il precedente della consultazione del 1989, quando venne chiesto al popolo italiano di esprimersi a favore o contro il mandato al Parlamento europeo per redigere un progetto di Costituzione europea. Ma questo referendum venne indetto, con le procedure complesse di cui all'articolo 138 della Costituzione, con apposita legge costituzionale, che permette appunto di fare delle eccezioni.
Questa è l'unica strada per evitare che la questione resti sul legittimo piano delle opinioni politiche, non potendo però di fatto diventare qualche cosa di operativo. Si tratta, come dicevo, di un iter lungo e complesso, che non consente delle scorciatoie proprio per il carattere rigido della nostra Costituzione, nato per evitare cambiamenti costituzionali con "colpi di mano".
Per altro, per chi volesse andarsene dall'euro per tornare alla "liretta", dovrebbe discutere l'uscita con i partner europei, trattandosi di una scelta che non può avere un carattere unilaterale. E' ovvio, a questo proposito, che non si può volere la "botte piena" e la "moglie ubriaca". La richiesta di uscita - diversa la posizione di chi non aderì all'euro scientemente o di chi non ha potuto farlo in assenza di "fondamentali" che lo permettessero - significherebbe di fatto uscire dall'Unione europea. Esiste anche l'ipotesi, che sarebbe assai negativa per l'Italia, di immaginare - come fanno alcuni - un'Europa a due velocità, con l'Italia che finisce in una sorta di Unione europea di "serie B" o con ritorno alla propria moneta di origine o con un "euro bis".
Non mi dilungo sugli aspetti tecnici e sulle ricadute economiche di una possibile uscita. Il quadro sarebbe assai complesso e rischioso e chi la fa facile coglie solo l'effetto deflagrante. Più semplice, anche in questo, occuparsi della "pars destruens" di quella "costruens", ammesso e non concesso che si possa fare, come già argomentato.
Ricordo un'intervista del costituzionalista Stefano Rodotà, candidato al Quirinale dei "Cinque stelle", in cui disse senza fumisterie: «Io sono molto scettico, anzi devo dire anche ostile. Innanzitutto vi sono vincoli di tipo costituzionale, perché qui siamo di fronte a trattati internazionali per i quali il referendum è esplicitamente escluso. Ma lasciando da parte l'argomento formale, qui c'è un problema di scarso approfondimento di questo tema. Cosa significherebbe uscire dall'Europa? Quali sarebbero i costi, non soltanto i costi in astratto per l'economia, ma proprio i costi concreti che sarebbero sopportati da chi è più debole economicamente? Siamo così sicuri che un'Italia che ha una situazione, critica, che stenta a riprendere il passo, non sarebbe stata travolta da una crisi molto più profonda se non avesse avuto l'ancoraggio europeo? Lo so che né la politica né la storia si fanno con i "se", ma credo che queste cose andrebbero prese in considerazione».
Approvo e sottoscrivo.

La pericolosità delle minicar

Minicar elettriche nel centro di MilanoMuore un ragazzo, Alex, per i postumi di un incidente con la sua "microcar" sulla strada statale 26 della Valle d'Aosta e il suo passeggero resta gravemente ferito. Saranno gli inquirenti a stabilire la dinamica dei fatti. Immagino - avendo la stessa età di mia figlia - lo strazio di parenti ed amici di fronte ad una vicenda così dolorosa, che induce al rispetto e alla partecipazione.
Ma questo incidente riaccende l'attenzione su questo tipo di veicoli, guidabili a partire dei quattordici anni con il patentino del motorino. Traggo qualche dato - senza riferimenti con il caso citato - da un articolo sul sito della "Fondazione Unipolis", che accresce i miei timori.
Così si apre il pezzo: "I drammatici incidenti stradali degli ultimi mesi ripropongono il problema delle "minicar", le mini "automobili" guidate dai ragazzini che stanno, purtroppo, continuando a mietere giovani vittime. Nate anche per temperare le ansie dei genitori che non vogliono comprare ai figli il motorino e pensano di proteggerli dentro un abitacolo in lamierino, si stanno dimostrando pericolose e insicure quasi quanto i veicoli a due ruote. «Le minicar sono oggettivamente più pericolose degli altri autoveicoli e sono i dati a dircelo», spiega Giordano Biserni presidente di "Asaps - Associazione sostenitori e amici della Polizia stradale". Infatti, «in caso di incidente, l'indice di mortalità, se si viaggia su una minicar, è doppio rispetto a quello calcolato, per chi utilizza un autoveicolo: 1,41 per cento per le microvetture, 0,7 per cento per le automobili»".
Questo, purtroppo, illumina sui rischi, dati alla mano e così prosegue l'articolo: "Pur avendo le sembianze estetiche di un'autovettura, la fragilità strutturale del veicolo e la tipologia dei conducenti, giovanissimi e, spesso, anziani rendono le "minicar" uno dei mezzi più pericolosi sulle strade. «La pericolosità di queste vetturette deriva anche - continua Biserni - da un apparato frenante non adeguato, da dispositivi di protezione dell'abitacolo di dubbia efficacia e da un'instabilità sui fondi bagnati che rendono un possibile impatto molto più a rischio per il conducente rispetto ad un'automobile». I limiti di peso severissimi (per legge le "minicar" devono pesare meno di 350 chili) rendono praticamente impossibile l'installazione di barre di rinforzo, telai rigidi o "abs". Non è un caso che il legislatore li equipari in tutto e per tutto, salvo l'uso del casco, ai ciclomotori. Cosa fare, quindi, per limitare i pericoli e l'incidentalità? Per Biserni è indispensabile agire su più piani. «Innanzitutto è necessaria una forte formazione e informazione ai genitori che erroneamente considerano le "microcar" automobili in tutto e per tutto. Spesso sono ritenute dai genitori più sicure del classico motorino: il che è falso, come dimostrano i dati. Infatti, anche se non bastano quattro ruote e una carrozzeria per essere una vettura "vera", l'intima percezione di molti papà e mamme è che invece sia proprio così»".
Ma veniamo a un punto delicatissimo e cioè il rischio che le macchinette vengano "truccate": "Per Biserni sono inoltre «necessari maggiori controlli da parte delle Forze dell'ordine sulle strade e sui veicoli, spesso modificati da meccanici compiacenti (la velocità massima consentita è 45 chilometri orari), rimanendo in attesa di una legislazione nuova che però ci auguriamo non si spinga a parificarle alle autovetture». La soluzione non sta, quindi, nell'eliminare le vetturette che rappresentano, come i motocicli, una valida soluzione al traffico (si parcheggiano facilmente e possono essere, specie in versione elettrica, un'alternativa più ecologica alle auto vere e proprie), ma nel codificarne l'utilizzo con l'introduzione di una patente ad hoc, nel controllarne l'eventuale manomissione del motore, nell'adeguarne le regole di circolazione a quelle delle auto, nel promuovere campagne informative rivolte ai genitori e agli stessi ragazzi per riflettere sulla pericolosità di una guida eccessivamente disinvolta ed ignorante delle basilari regole di sicurezza".
Sono dei ragionamenti generali che confermano i rischi oggettivi con cui è bene fare i conti.

Berlusconi incuriosisce

Il selfie di Vladimir Luxuria con Francesca Pascale e Silvio BerlusconiLa politica italiana (anche quella valdostana di questi tempi...) è ormai da tempo un rompicapo. Difficile e pure inutile è fare delle previsioni, perché il rischio di sbagliarsi è elevatissimo. Meglio viaggiare "a vista" e guardare fin dove si vede bene, piuttosto che affrontare l'ignoto, dove cioè gli antichi - anche se la cosa non ha poi un fondamento documentale - pare scrivessero nelle mappe il celebre motto "hic sunt leones" (o "dragones") ad indicare l'ignoto.
Capire in particolare cosa stia capitando a Silvio Berlusconi è un argomento politico e incuriosisce. Si oscilla fra due estremi: quasi ottantenne vive ormai sotto l'influenza di un piccolo entourage, specie della fidanzata napoletana, Francesca Pascale; Berlusconi è sotto traccia e aspetta che Matteo Renzi abbia abbastanza corda per impiccarsi e poi spunterà come un vecchio gatto con sette vite.
Non so quale sia la verità e sarei portato a dire che, salomonicamente, la verità stia nel mezzo. Che abbia qualche influenza strana lo mostra l'improvviso côté animalista con il piccolo "Dudù" che imperversa come con una vecchia zitella e c'è anche quel passaggio - rubo una battuta non mia - da Vladimir Putin a Vladimir Luxuria, che ha cancellato tutte le brutte battute sui gay (per Umberto Bossi «culattoni») cui il Cavaliere ci aveva abituato, ma la metamorfosi resta sospetta.
L'altro scenario è l'attesa che il renzismo declini per far rimontare il berlusconismo. Intanto Renzi gli ruba voti a destra, saccheggia il suo programma e ha nel suo Governo quelli di NCD di Angelino Alfano, bestia nera del Cavaliere. Ma soprattutto in Forza Italia l'ex pupillo, Raffaele Fitto, sbuffa e "rompe", prendendosi da un Berlusconi furioso del "prete di Lecce", figlio di un democristiano.
Strano clima di attesa nel centrodestra, pensando appunto che, di fatto e di diritto, la realtà è che Berlusconi ha sancito - con qualche periodico aggiornamento - con Renzi quel "Patto del Nazareno" che ha i contorni di quel matrimonio cui agognerebbe la Pascale.
Un accordo che risale a quel 18 gennaio 2014, quando questi due importanti esponenti politici si incontrarono al "Nazareno", ovvero la sede del Partito Democratico a Roma, così definito perché si trova in via del Nazareno.
In quell'occasione stabilirono alcuni punti comuni soprattutto sulla riforma della legge elettorale, ma anche sulle riforme costituzionali e forse sulla futura Presidenza della Repubblica. Poi, nell'Italia della dietrologia, si dice che ci sarebbe molto altro ancora, come i business televisivi del Cavaliere e i suoi guai giudiziari. Ma sono "voci", anche se qualche indizio già ne mostra la non manifesta infondatezza.
Comunque sia, il quadro attuale - fatto salvo lo strapotere di Renzi - appare confuso e non si capisce mai dove la transizione ci porterà. Sapendo che ci sono almeno due insidie. La prima è che la politica continui a basarsi sui punti cardinali posti dai sondaggi, che ormai da anni non ci pigliano più o per l'incompetenza di chi li fa o per lo spirito da bastian contrari degli italiani, che dicono una cosa e ne fanno un'altra. La seconda riguarda la politica economica, che è sempre più mutevole fra annunci e smentite, ma che è certamente sotto la lente d'ingrandimento - che ci piaccia o no, ma ciò avviene sulla base di patti cui l'Italia ha aderito - dell'Unione europea. Leggeremo, quando ci sarà il testo del "Patto di stabilità". Intanto mi pare che Trento e Bolzano abbiano fatto prevedere, prima del Consiglio dei Ministri, un'astuta pattuizione preventiva con lo Stato a difesa della loro autonomia. Della Valle d'Aosta non è dato sapere.
Per cui in Italia ed anche in Valle d'Aosta il tavolino balla non perché lo spiritismo esista e ci sia qualcuno che ci vuole parlare dall'Aldilà, ma è il tremore delle nostre gambe per via del solito e scaramantico "Io speriamo che me la cavo"...

Un'autonomia senza soldi

Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan durante la presentazione della manovraRagionare sull'autonomia è un dovere: sappiamo bene che il regime autonomistico attuale, pur in parte tutelato da norme costituzionali, è ben diverso da un regime federalista. Per capirci: il federalismo non è una "concessione" ed i Paesi federalisti "veri" hanno nella fiscalità locale la chiave del sistema, non come in Italia dove i criteri di tassazione (e pure l'esazione) vengono decisi al centro, consentendo solo - così è per le Regioni - di aumentare le aliquote!
Ma occupiamoci dei soldi, dell'«argent qui fait la guerre». Per molti anni il nostro ordinamento finanziario ha tenuto. Questo non è mai avvenuto "per grazia ricevuta", ma Finanziaria dopo Finanziaria - anche con l'uso delle norme di attuazione "a blindatura", ad esempio del fondo compensativo per il venir meno dell'Iva da importazione dei Paesi Cee - la battaglia era sempre stata campale. Ricordo notti intere alla Commissione bilancio della Camera a vigilare sugli emendamenti che si succedevano per evitare sorprese e, anzi, aggiungere qualcosa di buono per le casse regionali. Questo ha significato anche, sino a un certo punto, assumere - in una logica pattizia - nuove funzioni e competenze in cambio del fatto che non si toccasse la percentuale delle quote a noi spettanti. Meccanismo che si è bloccato con le norme d'attuazione, mai attuate, sul Catasto e la ferrovia alla Regione.
Da qualche anno a questa parte, la situazione finanziaria è precipitata con un dimezzamento delle risorse e le ragioni non tocca a me spiegarle. Alla riduzione sino al suo esaurimento del già citato fondo compensativo si è sommato, infatti, l'uso crescente della "riserva erariale" dello Stato, che vuol dire che una parte della tassazione se la tiene Roma con la scusa del rientro dal debito pubblico e anche con il meccanismo del "Patto di stabilità" (che io ho denunciato quando altri erano silenti), che ha creato in certi anni il paradosso di avere i soldi ma di non poterli spendere. Ora, in modo crescente, si usa a Roma una politica furbesca: diminuisce con la "Legge di stabilità" la tassazione con evidenti ricadute sul riparto fiscale e questo - mi pare senza la dovuta partecipazione al Consiglio dei Ministri del presidente della Valle, come da obbligo statutario - "scarica" sulla Regione (e anche sui Comuni) la responsabilità di aumentare la tassazione. Roma ride e fa bella figura, Aosta piange e diventa "cattiva".
Siamo davvero ad un corto circuito della nostra autonomia speciale. I poteri e lo spazio di autogoverno si impoveriscono via via attraverso questo svuotamento della capacità finanziaria. E siamo a livelli tali di "tagli", a causa evidentemente di problemi di interlocuzione e di credibilità politica, che ormai risuonano forte le sirene di allarme. Si tratta di uno svuotamento dell'autonomia che colpisce al cuore le prerogative economico- finanziarie. Sapendo che l'autonomia politica era già minata, in questi ultimi anni di "redde rationem", da una "mala gestio" della cosa pubblica.
Di questo bisogna discutere, come stanno facendo le Province autonome di Trento e Bolzano, che hanno limitato i danni, facendo proposte intelligenti e facendo pesare il giusto equilibrio politico fra diritti e doveri derivanti dalla Specialità. Una strada già battuta, che basterebbe in parte seguire, segnalando come il "salasso" dei valdostani sia stato, nel breve, molto più elevato di qualunque ragionevole logica di "spending review". Esiste un buonsenso anche nel risparmio, che non può avere un effetto deflagrante su di una comunità.
Ma, come dicevo, si tratta di una battaglia di tutti i giorni, nel quadro di una guerra politica e come tale guerra simulata, che concerne i rapporti, intendendoli come necessariamente corretti fra Istituzioni, nel quadro della stessa Repubblica. Si chiamerebbe, ma pare disatteso, il principio di "leale cooperazione".
Se questo si interrompe, allora ogni strada diventa percorribile. Verrebbe da intitolare per sdrammatizzare: «Roma, non far la stupida stasera...».
Purtroppo, però, c'è poco da ridere.

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