June 2014

"L'enfer, c'est les autres"

La foto dal profilo 'Facebook' di Carlo LissiCi sono argomenti di cui è difficile scrivere. In contemporanea, proprio ieri, si sono incrociati - commentatissimi da editorialisti di punta - due casi di cronaca nera: uno vecchio, con la scoperta dell’assassino, di Yara Gambirasio, la ragazzina bergamasca uccisa alcuni anni fa (all'epoca mia figlia aveva la sua stessa età e non fu difficile capire lo strazio dei genitori); il secondo recente riguarda, sempre in Lombardia, quel padre che ha ammazzato la moglie e i due figli a colpi di coltello, perché invaghito di una collega (l'orrore mi ha mozzato il fiato, come credo a tutti).
Sarà che la diffusione delle notizie è oggi più rapida e più capillare, ma se uno si prendesse la briga di mettere assieme - solo nell'ultimo anno - casi analoghi o simili ne avrebbe di che riflettere per la numerosità e l'efferatezza. Ancora ieri a Milano un tizio ha accoltellato tre persone, uccidendone una! Neppure un Quentin Tarantino, amante di una rappresentazione persino grottesca della violenza umana, potrebbe inventarsi certe storie terribili, degne di quei "piani sequenza" che piacciono al regista americano. L'orrore non è solo nelle sue pellicole, dove il sangue che schizza è quasi uno sberleffo rispetto invece alla drammaticità di certi delitti, ma è tristemente fra di noi, nella mente di persone "normali", dei familiari e del vicino di casa. «Ci sembrava una brava persona»: la testimonianza standard apre uno squarcio sull'attuale stato di incomunicabilità.
A caldo, con un "Tweet", avevo scritto che, essendo contro al pena di morte per mie convinzioni giuridiche e culturali, uno come il marito-padre assassino non dovrebbe finire all'ergastolo in una cella, ma dovrebbe - nella fatica fisica come pena aggiuntiva - spaccare le pietre, come avviene in certi penitenziari americani. In privato un lettore di questo blog mi ha rimproverato, dicendo che il suo vero destino dovrebbe essere un manicomio criminale, perché - questo il ragionamento - solo un matto può fare cose di questo genere e dunque, come malato, va curato. Se così fosse - e non si trattasse, quello della malattia, di un alibi per sfuggire alle proprie responsabilità - allora sarei sulla stessa lunghezza d’onda. Un malato va confinato e curato, poi sull'opportunità di riaprirgli prima o poi le porte del manicomio avrei qualcosa da eccepire…
Ma qui si entra nel terreno scivoloso della follia e della sua interpretazione da parte della legge. Ieri un’amica, sempre nelle citazioni brevi di un "Tweet", mi ha ricordato la famosa frase di un’opera teatrale di Jean-Paul Sartre «L'enfer, c'est les autres», che disegna la potenziale drammaticità dei problemi interpersonali. Sul punto bisogna capirsi: i manicomi, come rimasti tali sino alla "legge Basaglia", la 180 del 1978, con le lentezze nella sua applicazione, nessuno li difende. Gli ospedali psichiatrici erano in gran parte strutture terribili, dove finivano anche persone con malattie lievi o con semplice devianza sociale. Ma va detto che la nuova impostazione della legge, non più "carceraria", aveva tutta una parte di prevenzione e riabilitazione, che è rimasta in gran parte lettera morta. Dunque, senza rimpiangere il passato, la netta impressione nell'opinione pubblica è che troppi "matti" siano in giro. Tesi confortata - ed ho un ampio repertorio conosciuto di persona - da famiglie sconfortate di fronte al rischio irrisolto di familiari con malattia psichica dai comportamenti violenti con cui è difficile convivere, senza reali risposte da parte delle autorità sanitarie preposte. Almeno questo è quanto mi è stato raccontato.
Capisco che, così scrivendo, presto il fianco a critiche di chi di queste cose è ben più esperto. Mi limito, però, a segnalare l’idem sentire. Capite il paradosso? Se il Tizio che ha ucciso moglie e figli dovesse essere considerato un folle, potrebbe finire in un manicomio criminale, strutture però - alcune delle quali, come Aversa, davvero agghiaccianti - che saranno chiuse nella primavera del prossimo anno. Ma gli esperti osservano che si rischia di fare lo stesso errore già fatto con la 180, cioè non tenere conto dei pazienti psichiatrici molto gravi e pericolosi, che hanno bisogno di forme di "contenimento forte" e di trattamenti specifici che finirebbero, invece, per ricadere sulle locali strutture sanitarie.
Non è con il buon cuore che si evita che certe persone tornino in libertà e, come già si è visto, chi ha compiuto gesti terribili può di nuovo rifarli.

Maturità

Salvatore QuasimodoSono passati troppi anni dalla "mia" Maturità per ricordare quali fossero i titoli e quale "traccia", come si dice oggi, scelsi all'epoca. Ricordo benissimo, invece, il luogo del delitto: eravamo nei banchi sparsi nel corridoio del primo piano del Liceo "Carlo Botta" di Ivrea. Non ero particolarmente emozionato e mi pare che le cose andarono senza problemi di sorta, ma la memoria serve come contraltare alla terrificante prova scritta del giorno successivo di traduzione dal greco, che però fu un fenomeno generale per una versione sbagliata nella scelta ministeriale e questo attutì gli esiti.
Quando si parla delle tracce di ieri, vorrei fare una considerazione iniziale, prima di un'occhiata più approfondita, contando che i testi esatti lì trovate scorrendo i "tweet" qui vicino. Quando ho visto, non ancora nei particolari, quali fossero gli argomenti della prima prova, mi si è aperto il cuore: mi sono parsi spunti assai interessanti e "bei titoli" su cui mi sarebbe piaciuto scrivere. Poi, mentre le notizie si assestavano, persino con le foto delle proposte di tema, mi sono messo di più nei panni dello studente (non solo perché mio figlio Laurent è maturando), pensando a quel "me" che ero nel lontano - ahimè - 1978. Allora ho rettificato: si tratta di tracce molte interessanti per chi sia molto strutturato, ma per uno studente si tratta di argomenti "lacrime e sangue" ed a gran rischio per la distanza dal perimetro nozionistico, il che è bello ma non sempre è un bene.
Lasciamo perdere la poesia di Salvatore Quasimodo, che confesso - per mia ignoranza - essermi sconosciuta, per cui l'ignoto meglio evitarlo, ma anche altre suggestioni erano da mozzare il respiro.
Il tema sui due volti del Novecento (violenza e non violenza) ha una profondità notevole, come la comparazione fra il quadro europeo del 1914 e quello attuale. Si oscilla fra il centenario della Grande Guerra e l'integrazione europea con il rischio di non cogliere il punto.
Ci sono poi le nuove responsabilità (o meglio le sfide del cambiamento del mondo o l'incalzare della modernità), ma anche la traccia sulla tecnologia pervasiva, che è quello che avrei fatto, perché il tema è di grandissima attualità in questo mondo, che muta con nuove tecnologie molto incidenti su di noi e sui nostri comportamenti. Questi titoli vengono sostanziati con brani di autori, che in buona parte conosco, mentre i ragazzi non penso che li abbiano letti e dunque rischiano, nella brevità delle citazioni, di prendere lucciole per lanterne.
Vi è ancora la traccia sul "dono", tema antichissimo e complesso, che richiede, pensando anche ai dipinti citati, una competenza non da ridere. Infine l'argomento che riguarda la sfida della "ricucitura" delle città con le periferie, come da spunto dall'architetto Renzo Piano, molte distante per gli studenti valdostani dalla propria realtà.
Insomma, una bella tenzone intellettuale, ma spero che si tenga conto di quanto l'asticella fosse alta da superare e forse bisognerebbe che gli esperti che scelgono abbassassero il proprio livello, pensando a chi - studente a fine ciclo - si troverà a superare la prova, oltretutto in un'occasione in cui la paura fa novanta e lo stress incombe. Ma sopravviveranno, come tutti noi, e poi ritorneranno nel tempo e con la nostalgia della giovinezza sulla "loro" Maturità, che somiglia a quei riti d'iniziazione di quanto eravamo cacciatori e raccoglitori.
Resta il complesso della Maturità, che è più o meno la stessa di quella affrontata da mio papà nella seconda metà degli anni Trenta del secolo scorso, perché in fondo la scuola ha ancora molto dell'impronta della "riforma Gentile", che già allora agiva sul sistema. Non che tutto sia rimasto uguale: da studente ho visto i decreti-delegati e poi in politica ho visto i tentativi a Roma di operare riforme mai completate e ad Aosta ho vissuto, anche e proprio sulle modalità della Maturità, i tentativi di avere un nostro ordinamento scolastico. Ma siano in parte rimasti, per varie ragioni, a metà del guado e ci sono tanti passi da fare in futuro.
La Maturità va riformata, ma - essendo la punta di un iceberg - partendo da una coraggiosa azione sul vecchio corpaccione di ghiaccio della scuola per evitare che anche su questo l'Italia, sperando in più spazi autonomistici anche per la scuola valdostana (immediato potrebbe essere l'agire sull'istruzione tecnico-professionale in crisi nera), rischia di perdere la sfida con gli altri Paesi europei.
Anche questo ci spingerebbe verso il "girone B" dell'Unione europea.

Luciano e l'ignoranza

Un chiaro esempio di ignoranza"L'ignoranza acceca gli uomini": questa la versione di greco antico, data ieri, come seconda prova, al Liceo Classico. Autore lo scrittore Luciano (bel nome...), nato a Samosata nella Siria Commagene, oggi Turchia, verso il 125 d.C..
La "Treccani" ci illumina sulla sua personalità: "apprendista scultore da ragazzo, si volse presto agli studî letterarî greci e divenne retore e conferenziere secondo l'uso della "seconda sofistica". Fu dapprima avvocato in Antiochia, poi girò, tenendo conferenze sofistiche, per l'Asia Minore, e di lì passò in Grecia, in Italia, in Gallia, dove pare avesse anche un incarico pubblico. Verso il 165, già celebre e ricco, tornò ad Atene, dove visse recitando in pubblico le sue operette satiriche e dove sembra abbia avuto una crisi spirituale che lo spinse ad abbandonare la retorica per la filosofia. Più tardi fu capo della cancelleria imperiale presso il prefetto di Egitto, dove probabilmente morì negli ultimi anni del secolo".
Vita avventurosa davvero! Gallie? Già mi sembra di essere Sherlock Holmes a pensare che magari passò dalle nostre parti lungo la strada romana, fermandosi nella relativamente giovane città dell'Impero, Augusta Prætoria...
Chiudiamo la fantasia. Cosa dice il celebre testo? Eccone la prima parte in una traduzione abbastanza comprensibile, perché su Internet circolavano ieri testi davvero ostici pure in italiano: "L'ignoranza è una cosa tremenda, causa di moltissimi mali per gli uomini, in quanto spande una certa caligine sui fatti, oscura la verità e rende meno chiara la vita di ciascuno. Al buio sembriamo tutti alla stregua di persone cieche, o meglio sperimentiamo le stesse cose dei ciechi, quindi inciampando inaspettatamente nelle cose, e passando oltre senza che ce ne sia il bisogno, non vedendo le cose che stanno vicine ai nostri piedi e temendo come molesta una cosa che in realtà si trova lontano, molto distante".
Quanta verità in queste poche righe sull'ignoranza, che ancora oggi vediamo attorno a noi e che risulta per alcuni non il buio ma persino - anche in politica - una carta vincente. Certo il tono è leggero e colloquiale e chissà se la trasposizione in italiano riesce davvero a rendere quel senso che, dai secoli e secoli passati, risorge anche nella fatica interpretativa dei nostri ragazzi impegnati nella Maturità classica. Quando raccontavo di questi nostri studi ai greci attuali, ritrovavo stupore e ammirazione e devo aggiungere che, in visita ufficiale, ai tempi del Parlamento europeo come presidente della Commissione sulla Politica regionale in Grecia, facevo la mia porca figura in certe località della loro storia antica, arrivandomi come flash dal passato nozioni e ricordi con cui brevemente pavoneggiarmi. Questo - torniamo alla fantasia - mi ha sempre fatto pensare: non solo per la profondità di quel pensiero antico, seme di tante discussioni nella diversa gamma delle discipline del pensiero, ma anche perché - come capita anche per le versioni di latino e per la letteratura - è sempre stimolante questo riferimento geografico fra scenari di vicende del passato così remoto e i luoghi odierni. Mi è capitato in tutte le località storiche dove sono stato questo gioco rievocativo e spesso mi costruisco storie e fantasie anche sulle località più significative della storia valdostana, aspettando che prima o poi spunti davvero una straordinaria "macchina del tempo", che ci faccia attraversare le epoche, come per ora avviene solo - con esiti inquietanti o divertenti - nei film di fantascienza.

Tatuaggi ieri ed oggi

Un tatuaggio ispirato a 'Moby Dick'Quando ero piccolo, il termine "tatuaggio" (registrato dall'esploratore James Cook e proveniente dal tahitiano "tatau") era adoperato raramente. Ricordo, da guardare con circospezione, dei marinai al porto di Oneglia, che erano tatuati e facevano ammirare questa cosa anche ai bambini. Ma si trattava di un fatto fenomenale e memorabile. Per altro, scorrendo un'enciclopedia sui popoli del mondo che c'era nella libreria di casa, mi ricordo il vivo stupore quando guardavo le fotografie dei Maori della Nuova Zelanda.
Ricordo anche e qui lo trascrivo l'impressione ricavata dal libro di Herman Melville, "Moby Dick", quando descriveva il bizzarro ramponiere polinesiano con i suoi tatuaggi: "E questo tatuaggio era stato opera di un defunto veggente e profeta della sua isola, che con quei geroglifici gli aveva tracciato addosso una teoria completa dei cieli e della terra, e un trattato misterioso sull'arte di raggiungere la verità. Sicché Queequeg era nella sua stessa persona un enigma da sciogliere, un'opera meravigliosa in un solo volume, ma i cui misteri neanche lui sapeva leggere, per quanto pulsassero con gli stessi battiti del suo cuore: questi misteri erano perciò destinati a sgretolarsi alla fine assieme alla viva pergamena su cui erano tracciati, e così a restare insoluti per sempre".
Poi, di pari passo, con la mia crescita ho visto affermarsi il fenomeno come elemento di costume, che mi pare - dal numero dei tatuatori in giro - piuttosto stabilizzato. Io non lo farei mai e non per paura del dolore, ma perché già non porto oggetti di nessun genere sulla pelle - orologio compreso - e considererai un tatuaggio come qualche cosa di invasivo. Ma ricordo di aver visto amici e amiche impegnati nell'impresa con più o meno resistenza al dolore e di aver sempre guardato con viva curiosità quei cataloghi pieno di figure possibili, che fungono da modelli nelle anticamere dei tatuatori.
Quando a Bolzano ho visto il corpo mummificato del famoso "Uomo del Similaun", dal ghiacciaio, dove venne ritrovato nel 1991, al confine fra Tirolo del Sud e Nord Tirolo, mi è stato spiegato che Oetzi aveva sul suo corpo una cinquantina di tatuaggi. Allora non si usavano, come oggi, degli aghi, ma si incideva la pelle per poi far spiccare il tatuaggio con del carbone vegetale. Si tratta di crocette, punti, linee, che dovevano avere una motivazione curativa (qualcuno azzarda punti dove praticare agopuntura) o di simbolistica religiosa. Questo progenitore alpino è vissuto nell'Età del rame e dunque in un momento di passaggio fra il Neolitico e l'Età del bronzo, in un lasso di tempo che oscilla fra il 3300 e il 3200 a.C..
E' probabile che anche gli antichi popoli abitatori della Valle d'Aosta si tatuassero, ma anche una parte dei soldati veterani che fondarono Augusta Prætoria portavano di certo incisa sulla pelle la legione di provenienza o il famoso "S.P.Q.R. - Senatus PopulusQue Romanus".
Tornando alla contemporaneità. Noto segni di pentimento da parte di chi ha inciso sulla pelle nomi di persone con cui hanno vissuto amori finiti. Ho riso di chi, per la trasformazione del proprio corpo, ha dei tatuaggi che non sono neanche più del tutto leggibili. Nascerà prima o poi lo "statuatore" - so che lo fanno già i chirurghi plastici - per cancellare "tribali" adolescenziali. Annovero anche qualche caso di scritte in lingue eccentriche, dimostratesi poi o sbagliate o con significati assai diversi da quanto pensasse il soggetto tatuato.
Mi è stato raccontato, infine, in un recente viaggio a Genova e per chiudere la casistica, come le bande di ragazzi di origine sudamericana abbiano un codice molto preciso, che passa anche attraverso la fattura dei tatuaggi che portano. Nulla cambia, insomma, in questa umanità che acquisisce abitudini, le perde, le ritrova, anche - per chi lo fa - incidendo la propria pelle.

Non demonizziamo il burro

Un dettaglio della copertina del 'Time' dedicata al burroGli incontri casuali della vita innescano incroci anche nelle abitudini alimentari. La mia famiglia ne è un esempio. Mio papà, per quanto di una famiglia di antiche origini liguri, era imbevuto - visto che era già valdostano di seconda generazione - dalle usanze a tavola della nostra Valle. Non che l'olio di oliva, beninteso, gli fosse sconosciuto, ma il burro - il principe della cucina alpina - gli piaceva eccome e, anzi, da buon veterinario, conosceva pure prodotti di nicchia, specie d'alpeggio, che deliziavano i nostri palati. Ricordo del burro, con stampi tradizionali impressi, paradisiaco. Mia madre, ligure, cucinava quel che aveva imparato lì, specie per suo padre, Emilio, che dopo una carriera militare, era diventato commerciante d'olio e aveva un palato allenato ad analizzare in profondità gusti e aromi. Questo vuol dire che l'olio a casa mia è sempre rigorosamente d'oliva e comprato a Imperia, dove se ne conosceva la qualità. Questo, tra l'altro, mi permette di riconoscere quanta schifezza viene venduta in Italia come "olio d'oliva", specie il prelibato "extravergine".
Per cui, quando il burro, negli anni Settanta ha cominciato ad essere demonizzato, per motivi di salute, da noi non è stato un problema. Immagino, ma penso che nessuno abbia mai fatto i conti, che invece lo sia stato per i quantitativi prodotti in Valle, perché molti sono passati agli oli e ad altri prodotti vegetali come la margarina (inventata dal farmacista francese Hippolyte Mège-Mouriès per rispondere al concorso indetto da Napoleone III nel 1869 per fornire alla marina un sostituto del burro, più economico e che potesse conservarsi per lungo tempo senza irrancidire!).
E' qualche giorno che si discute nuovamente della questione per un titolo - "Mangiate il burro. Gli scienziati hanno bollato i grassi come nemici. Ecco perché si sbagliano" - comparso sulla copertina del prossimo numero del "Time", dove appare in primo piano l'immagine di un ricciolo di burro. Ora si aspetta l'uscita del giornale, ma c'è chi ha ricordato che, qualche mese fa, lo scienziato Fred Kummerow, in un articolo sul "New York Times", dichiarò che assumere in piccole dosi i grassi contenuti nel burro, nei formaggi, nel latte e nella carne (altra accusata da tanto tempo!) ha un effetto benefico sulle arterie.
In realtà la riabilitazione dei grassi saturi, quelli di origine animale, accusati dell'intasamento delle arterie e dei guai connessi, era già cominciata. Ho trovato un articolo del "British Medical Journal", scritto dal cardiologo Aseem Malhotra, che dice: «è arrivato il momento di dire basta al mito dei grassi saturi nelle malattie cardiache».
La cattiva fama dei grassi saturi e in primis del burro - ricordava Malhotra - ha avuto inizio nel 1970, quando nel famoso studio dei "sette Paesi" (quello che esaltò la "dieta mediterranea") i ricercatori trovarono una correlazione tra livello di colesterolo e malattie cardiache.
Da qui il diktat contro i grassi nell'alimentazione e in particolare quelli saturi, che avrebbero fatto aumentare la frazione "Ldl" del colesterolo, quello cosiddetto "cattivo", e vi fu la demonizzazione conseguente di alimenti come il burro. Studi più recenti non hanno trovato alcuna correlazione tra l’assunzione di grassi saturi nella dieta e rischio cardiovascolare. Naturalmente si parla sempre di quantitativi ragionevoli! Addirittura, questi grassi risulterebbero, come ho già detto, protettivi per il cuore, in particolare se assunti attraverso i latticini.
Una delle ipotesi degli scienziati è che le vitamine "A" e "D", di cui è ricco il latte, contrastino il rischio di malattie di cuore con il loro effetto di contrasto all'ipertensione. Anche la carne rossa risulta riabilitata. A far male sarebbero, semmai, gli additivi, sale e conservanti.
Una dieta troppo povera di grassi saturi produrrebbe il contrario dell'effetto sperato. Lo dimostrerebbe il fatto che anche dove i grassi sono stati ridotti nell'alimentazione della popolazione, come è avvenuto negli Stati Uniti, l'obesità è in continuo aumento.
Il tanto temuto colesterolo - concludeva Malhotra - trattato in tutto il mondo con le "statine" (che costituiscono ormai un'industria multimiliardaria) non sarebbero il principale responsabile di infarti e ictus.
I veri colpevoli andrebbero ricercati semmai tra alcuni prodotti di cui la grande industria alimentare da largo uso: i grassi idrogenati, il sale, gli zuccheri e altre amenità ben visibili sulle etichette, utilizzate per rendere più appetitosi cibi che, una volta tolti i grassi, non saprebbero di niente. Gli zuccheri in particolare sono alla base della sindrome metabolica, quel quadro di sintomi, dall'obesità alla glicemia alta, che comporta - dicono gli esperti - un alto rischio per il cuore.
Insomma: l'industria casearia valdostana dovrebbe dirlo forte e chiaro che un po' di burro, come gli altri prodotti del latte, fa bene!

La farina del diavolo va tutta in crusca

La cruscaIl potere ha una fortissima componente attrattiva: questa mia affermazione non significa per nulla una lettura che suoni con accezione negativa. Chiunque faccia politica coltiva, infatti, la legittima speranza di dimostrare di saper governare e dunque di mettere in campo tutte quelle idee e quei progetti che poi, in democrazia, si devono trasformare in concrete azioni amministrative e nella capacità legislativa. Ecco perché, nel migliore dei mondi possibili, il candidato ("vestito di bianco", poiché nell'antica Roma chi aspirava alle cariche pubbliche vestiva la toga bianca) dovrebbe avere le doti e le conoscenze per poterlo fare. Poi sappiamo, nella pratica, che la politica attira anche persone incapaci e persino disoneste per una serie di meccanismi perversi che la democrazia stenta a correggere. Specie laddove, come in Italia, certi principi etici siano stati annacquati da tolleranza e indulgenza e i comportamenti personali finiscano per essere ormai attenuati dal perdonismo, tollerante grazie alla remissione dei peccati.
L'ultima e più recente tendenza è il rischio di una crescente indistinguibilità in Italia fra maggioranza e opposizione, quel meccanismo fondamentale per il cittadino per distinguere fra chi governa e chi aspira a farlo, svolgendo quel lavoro di controllo e di controcanto, che tiene la democrazia tesa come una corda di violino. Ora, invece, si fa viva la tendenza a formare grandi coalizioni, dette delle "grandi intese" che, nel nome della crisi e delle emergenze, vorrebbero creare una perenne aggregazione indistinta, che dia la governabilità. Vien da usare quell'espressione in francese, "Embrassons-nous", nata dal successo di una comédie-vaudeville di Eugène Labiche ed Auguste Lefranc, andata in scena a Parigi nel 1850 e diventata un'operetta nel 1879. Da qui deriva appunto quella che è ormai una definizione standard: "une expression ironique désignant des démonstrations d'amitié ou de joie qui permettent d'oublier ou qui occultent les problèmes".
Nessuno nega - preciso subito - che ci possano essere, come avvenuto in Italia nel primo periodo del post fascismo, formule di intese in momenti di passaggio drammatici. Ma non è la regola.
Per cui chi si nasconde dietro il dito, con forme di questo genere, rischia di farlo solo per trovare un alibi per giustificare il proprio legittimo desiderio di abbandonare il campo dell'opposizione, che è posizione faticosa e avara di soddisfazioni. Ed invece penso che sia sempre un bene - lo dico anche per la crisi d'identità della politica valdostana di oggi - che sia chiaro chi e cosa rappresenti ciascuno dei soggetti politici sulla scena e chi stia con chi in assoluta trasparenza. La confusione e la logica del "piede in due scarpe" non sono positive e le tentazioni di fare i furbi non portano bene. Come sostiene il detto: "La farina del diavolo va tutta in crusca" e cioè i vantaggi ottenuti in modo disonesto sono alla fine privi di valore...

Il dolce naufragar dell'UNESCO

Chi mi legge da tempo sa bene quanto io ritenga un’organizzazione internazionale ormai inutile l’"Unesco", una macchina costosa con sede a Parigi, la cui reale attività - guardando i bilanci - è far funzionare sé stessa, come capita per organismi di questo genere, buoni per la moltiplicazione delle poltrone e per la costruzione di documenti e documenti destinati al nulla.
Già in passato, mi ero divertito a spulciare le centinaia e centinaia di siti che nel mondo hanno conquistato il label di “Patrimonio dell’Umanità”, cui ieri si è aggiunto - ed è sacrosanto nei contenuti - per il Piemonte la straordinaria zone vitivinicola nota come "Langhe - Roero" e Monferrato.
Trovate, non a caso questa aggiunta, nell’elenco per l’Italia, che qui pubblico in francese.

Piove, Governo ladro!

Pioggia...Leggo le previsioni del tempo (ormai dovunque scritte con linguaggio oscuro, se comparato al linguaggio cartesiano di "Meteo France") e questa storia dei temporali che incombono mi fa girare le scatole.
Poi arriva nel mio ufficio un collega e mi dice scherzoso, su questo giugno "pazzerellone" (non era marzo?), «Piove, Governo ladro!» e la discussione si sposta sul perché esista questa espressione. Confesso di non saperlo e mi metto a scartabellare.
Spunta così, autrice Antonella Bortolozzo, un articoletto sulla "Treccani", piuttosto tranchant sulle origini: "L'espressione "piove, governo ladro!", documentata anche con attestazioni letterarie («L’avevo detto io! Piove, governo ladro!», Antonio Gramsci, si ripete comunemente per satireggiare l'abitudine diffusa di dare la colpa di ogni cosa al Governo, talora anche come espressione di sfogo polemico. E' stata creata dal caricaturista Casimiro Teja, direttore del giornale "Il Pasquino" (1861), a commento del fallimento, causato dalla pioggia, di una dimostrazione di mazziniani a Torino. La vignetta raffigurava tre dimostranti che si riparavano dalla pioggia sotto un ombrello e uno di loro esclamava il motto di protesta".
«Ma no - replica il mio interlocutore - c'entra il sale!» A dargli soddisfazione quanto scritto in una pagina "Osservatorio meteo" dell'Università di Napoli (sic!), che sostiene con spiegazione di dettaglio: "Il sale è strettamente legato allo storia dell'uomo. Lo dimostrano una forte tradizione di usanze e tracce persistenti nel linguaggio. L'antica credenza che versare inavvertitamente il sale porti male deriva proprio dal fatto che era ritenuto un bene così prezioso da non poter essere sperperato; nel dipinto "L'ultima cena" di Leonardo da Vinci, Giuda Iscariota, che poco più tardi tradirà Gesù nell'orto dei Getsemani è riconoscibile dalla saliera rovesciata sulla tavola, proprio davanti a lui. Il detto: "cum grano salis", ovvero "con un granello di sale" è usato per indicare l’uso della ragione e dell'intelligenza prima di ogni decisione importante. Nell'antica Roma il sale era un alimento prezioso e merce di scambio, tanto che gli stessi legionari venivano pagati con il sale: da qui la parola salario per indicare la retribuzione per il lavoro svolto. La via Salaria ha questo nome perché progettata e realizzata principalmente per rifornire l’antica città di Roma di sale. La città austriaca di Salzburg, ovvero Salisburgo, significa "città del sale" per l'importante giacimento di salgemma racchiuso nel sottosuolo. Un tempo i trasportatori di merci, e in particolare di sale, dovevano pagare il dazio per il transito sui valichi, e pagavano a peso; i funzionari, per farli passare, aspettavano che piovesse. Infatti l’acqua bagnava i sacchi e li rendeva più pesanti per la capacità del sale di assorbire l’acqua e così aumentava la tassa da pagare. Da qui il detto: «Piove, governo ladro!»".
Su "Wikipedia", ma la fonte è un libro di Giuseppe Fumagalli, edito dalla "Hoepli" ed intitolato "Chi l'ha detto?", si legge a conferma: "Qualcuno fa risalire l'espressione al fatto che il Granduca di Toscana mise la tassa sul sale. La pesa veniva effettuata sempre nei giorni di pioggia e il sale pesa di più quando è bagnato". Più avanti si dice che questa espressione sarebbe di epoca romana. Ma, scusate, con la pioggia il sale non si scioglie? Vabbè...
Ma poi si aggiunge una diversa soluzione: "Secondo altri l'espressione "Piove, governo ladro!" nasce nei territori del nord Italia (Regno Lombardo-Veneto 1815-1848) sotto occupazione austriaca. I contadini, tassati in base al raccolto, sapevano che ad annata piovosa con presunto (dai governanti austriaci) raccolto più abbondante ci sarebbe stato un conseguente aumento delle tasse. Da qui l’uso di imprecare contro il governo quando piove".
Si chiude con due ulteriori possibilità: "Vi è un'ipotesi che fa risalire l'espressione alla tassa applicata alla raccolta dell'acqua piovana ai cittadini che avevano come fonte di raccolta le cisterne alimentate dalle grondaie. Altre fonti la ricondurrebbero al tempo degli egizi, quando il governo dell'epoca aumentava le tasse nei territori che venivano sommersi dalle acque durante le esondazioni del Nilo, ricoprendo il terreno di limo il terreno era più fertile e ciò dava origine alla maggior tassazione".
Insomma: c'è n'è per tutti i gusti nella scelta delle origini di questa espressione beffarda.
E fuori piove...

La sindrome di Caporetto

Il gol di Godin dell'Uruguay che ha buttato fuori l'Italia dai mondialiOggi giornata di lutto e di sedute psicanalitiche e di confessionali: "Brasile, addio!"
Gli Azzurri escono dal Mondiale carioca e l'argomento in effetti si presta a colossali prese per il naso della stampa internazionale e a "stracciarsi le vesti" di vario genere nella "politica" interna, a commento dei fatti avvenuti in diretta televisiva. Ieri sera i "social", a chiusura di una partita noiosa come non mai, grondavano di battute al vetriolo, che sarebbero rimaste inespresse se solo fosse arrivato un salvifico straccio di pareggio all'ultimo secondo del recupero. Questo per dire di un velo di ipocrisia che avvolge tutti, perché a mutare l'umore basta poco nel commentare lo sport che ha come suo motto principale l'assunto sempre buono per tutte le stagioni: "la palla è rotonda".
Lo ha cantato anche Mina con il brano tricolore, che avrebbe dovuto accompagnare l'Italia al successo, risultando invece un'affermazione beffarda e pure un pizzico menagrama.
Se non fosse che siamo ormai - non ancora per l’Italia che entrò in guerra un anno dopo - nel flusso della rievocazione degli altri Paesi belligeranti del secolo trascorso dallo scoppio della Prima guerra mondiale, allora avremmo potuto dire che questa partita di calcio, Italia - Uruguay, era avvolta, sin da subito, da una sorta di “sindrome di Caporetto”. Mi riferisco alla famosa sconfitta dell’esercito italiano sull’Isonzo nella Grande Guerra, che fa sì che la parola “Caporetto” sia diventata sinonimo - spesso improvvido pensando alla drammaticità di quell'evento bellico - di una qualunque sconfitta disastrosa. La “sindrome” si riferisce all’altro vizio italiano dello scaricabarile, cioè della mancata assunzione di responsabilità - come per quell'avvenimento storico - da parte di chi aveva inanellato un errore dietro l’altro sino alla “sconfitta perfetta".
Aleggia la famosa e fredda frase di Winston Churchill: «Gli Italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre». Insomma: un misto fra serio e faceto, tra tragedia e commedia. Quando il riso e il pianto si inseguono.
Ma va detto, nel caso in esame, che lo strapagato commissario tecnico della Nazionale, Cesare Prandelli, le dimissioni le ha date, in verità dopo aver proposto soluzioni tecniche stampate (parla il "ct" che c'è in me...). Annuncia dimissioni anche l'ormai logoro presidente di "Federcalcio", Giancarlo Abete, ma tutto il resto del mondo del calcio italiano "che conta" resta per ora lì attaccato al cadreghino, a dispetto non tanto dell'eliminazione ai Mondiali, quanto di quel verminaio che è da anni lo sport nazionale per eccellenza.
«Bisogna saper perdere, non sempre si può vincere»: così recitava - in modo ben più sbarazzino - una celebre canzone di Lucio Dalla, cantata da Caterina Caselli e dal gruppo dei "The Rokes" (cantante il ben noto David Norman Shapiro detto "Shel").
Per cui prendiamola così, ma speriamo che si dia fuoco alle polveri, per cambiare.

Quando la vita non c'è più

Vincent LambertCi sono argomenti complicati di cui non è facile parlare. Mi riferisco a quel confine fra la vita e la morte, che tanto fa discutere in questi anni e che diventerà, anche ma non solo con l’allungamento della vita, un tema sempre più importante per i giuristi e per ciascuno di noi. Non mi riferisco solo all'eutanasia tout court, con il peso dei problemi legislativi che si sommano a questioni religiose e morali, specie in un'Italia che tentenna su ogni argomento delicato, ma anche a questioni solo in apparenza più semplici.
E' il caso di Vincent Lambert, un infermiere francese di trentotto anni, tetraplegico da sei anni, dopo un incidente d'auto, e che si trova da allora in un stato vegetativo ritenuto irreversibile. Il Consiglio di Stato francese, con una sentenza drammatica, aveva deciso, sulla base della "legge Leonetti", dal nome del deputato proponente, che si dovesse subito cessare l’accanimento terapeutico (dunque nessuna "eutanasia diretta"), sospendendo alimentazione e idratazione forzate. La volontà del Lambert di non restare in vita senza nessuna coscienza era stata chiarissima e anche a questo si erano richiamati i giudici francesi in linea, per altro, con i medici curanti che confermavano che si è di fronte davvero ad una caso grave e illogico di accanimento terapeutico.
Ma esiste una parte della famiglia del malato che si oppone alla sua morte e che ha avuto una decisione, in attesa di una sentenza sul caso, dei giudici della "Corte dei Diritti dell'Uomo" di Strasburgo cui hanno presentato ricorso e che ha obbligato - contro la decisione dei giudici francesi - a proseguire ogni pratica terapeutica per tenere Lambert in vita artificialmente. Giungendo persino a impedire che venga spostato dal luogo di cura, perché - specie i genitori dell'uomo - temevano che la moglie portasse il paziente in Belgio, dove vige invece una legge ad ampio spettro sull'eutanasia.
Trovo che i giudici europei - precisiamo nel perimetro ben più vasto dell'Unione europea, che è il Consiglio d'Europa - abbia assunto una decisione su cui riflettere. Personalmente credo che sarebbe stato più logico, piuttosto che applicare questa sorta di "sospensiva", entrare subito nel merito della questione con la sentenza vera e propria. Non mi si può raccontare che ci fosse da fare chissà che cosa, visti gli aspetti preclari e cristallini di questa questione, pur nella tragicità degli eventi, che certo non vanno presi sottogamba. Specie perché - lo capisco - la decisione di Strasburgo peserà sulla futura giurisprudenza in merito.
Questo conferma la necessità di avere leggi che consentano al malato di evitare che certe vicende finiscano nelle mani di beghe fra parenti, come sta avvenendo in questo caso. E proprio ieri, ad aggiungere elementi di discussione, la Corte d'Assise di Pau ha assolto, sempre in Francia, dall'accusa di avvelenamento, il medico Nicolas Bonnemaison, che aveva ammesso di aver aiutato a morire sette anziani malati senza speranza, per evitare loro inutili sofferenze, all'ospedale di Bayonne.
Per quel che mi riguarda, se i medici in scienza e coscienza dicessero che nulla c'è più di fattibile per riportarmi ad una vita reale, sarei contro ogni forma di vita artificiale e ogni accanimento terapeutico sarebbe una violenza nei confronti miei e dei miei cari, che dovrebbero sempre e comunque rispettare quelle volontà da me espresse in un periodo precedente e con cognizione delle loro conseguenze.
Non vorrei mai diventare un pacco postale in mano alla Giustizia e vorrei che finalmente ci fosse una legislazione europea seria, rigorosa e omogenea, che eviti quella "fuga" contro il dolore e la disperazione per avere una morte dignitosa. Ciò sta avvenendo da anni verso la Svizzera, dove l'eutanasia non è un tabù e ormai lì vanno a morire tre italiani al mese e penso che sia pure una stima per difetto.

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