August 2013

La fattoria degli animali

Una vignetta emblematica tratta dalla 'Fattoria degli animali'Da Esopo in poi, attraverso i classici della favolistica, l'impiego della rappresentazione del mondo umano attraverso gli animali c'è sempre stata. E' un modo intelligente per parlare di noi, passando attraverso le altre creature che condividono con noi il Pianeta.
Di Esopo ricordo la celebre "La volpe e l'uva": "Una volpe affamata vide dei grappoli d'uva che pendevano da un pergolato e tentò d'afferrarli. Ma non ci riuscì. «Robaccia acerba!», disse allora fra sé e sé; e se ne andò.
Così, anche fra gli uomini, c'è chi, non riuscendo, per incapacità, a raggiungere il suo intento, ne dà la colpa alle circostanze"
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Per cui non mi stupisco che nella politica italiana, per rendere raccontabile la storia della misera politica attuale, si ricorra ai "falchi" e alle "colombe" e anche alla "pitonessa". Posso assicurarvi che anche nella politica valdostana esiste qualche soprannome "bestiale" di qualche big, genere un mammifero artiodattilo della famiglia dei Suidi.
Ma il capolavoro - da leggere da adulti e non da ragazzi, quando lo si trova mortalmente noioso - resta "La fattoria degli animali" di George Orwell, graffiante satira che, verso la fine della Seconda Guerra mondiale, rappresentò l'allegoria del comunismo dell'Unione Sovietica con una visione lucida in un'epoca in cui chi ci credeva era ancora adorante e altri tacevano per logiche d'alleanza contro il nazifascismo. La storia - che non ha nulla con il povero bestiario di oggi - vale naturalmente per ogni altra forma, grande o piccola che sia, di totalitarismo ed è semplice da riassumere e istruttiva in ogni luogo. Il germe dell'assolutismo può manifestarsi anche in democrazia in forme perniciose, specie quando si condisce di malaffare e immoralità, che neppure la propaganda servile riesce a nascondere.
Ma dicevo della storia del romanzo: in una fattoria inglese, di proprietà di un coltivatore ubriacone e violento, tale Jones, gli animali decidono di ribellarsi alla loro schiavitù. A capitanare la rivoluzione sono i maiali e i personaggi principali fanno il verso a Lenin, Stalin e Trotsky. Sono loro che fissano le regole di convivenza, che poi vengono disattese per primi proprio da maiali, che indicano la linea agli altri animali. I cavalli sono i lavoratori che subiscono, i cani sono i poliziotti che controllano, le pecore sono la maggioranza che piega il capo. Tra bugie, tradimenti e tragedie la fattorie degli animali diventa una vera e propria dittatura e i maiali finiscono per agire come gli odiati uomini.
Esemplari, nella vita di ognuno di noi, i sette comandamenti (tra parentesi le frasi aggiunte successivamente dai maiali per giustificare le loro azioni):
- Qualunque cosa cammini su due zampe è un nemico;
- Qualunque cosa cammini su quattro zampe o abbia le ali è un amico;
- Nessun animale deve indossare vestiti;
- Nessun animale deve dormire in un letto (con le lenzuola);
- Nessun animale deve bere alcool (in eccesso);
- Nessun animale deve uccidere un altro animale (senza motivo);
- Tutti gli animali sono uguali (ma alcuni sono più uguali degli altri).
Quest'ultima espressione è diventata famosa, a ragione. Ma l'epilogo è noto: i dittatori veri e quelli di cartapesta alla fine sono perdenti.

Banzai!

Lo stregatto di 'Alice in Wonderland' di Tim BurtonNell'epoca in cui la Seconda Guerra mondiale era per me solo rappresentata nei primi giornalini a fumetti, mi colpivano molto le strisce che rappresentavano i giapponesi contro i miei miti d'allora, i soldati australiani con il caratteristico cappello a larghe falde.
Il giapponese faceva impressione per quello strillo, che era un vero e proprio grido di guerra, «Banzai!», usato anche - come urlo prima dello schianto - in quelle immagini che rappresentavano gli attacchi aerei suicidi dei kamikaze contro le navi degli Alleati.
Se ho ben capito, leggendo da varie parti, in quel contesto - come negli assalti di fanteria - l'espressione voleva dire qualcosa tipo: «Lunga vita all'imperatore!». Mentre normalmente la parola composta, oltretutto di origine cinese, significherebbe, molto pacificamente e in modo del tutto beneaugurale, «diecimila anni di vita», che diventa poi - ripetuta tre volte - come il nostro orlo di giubilo «Evviva!». Chissà se è davvero così: il confronto con altre culture è sempre da prendere con le pinze e con il rischio di una gaffe incombente.
Ma prendiamolo per buono per dire dello stato della politica in Italia e in Valle d'Aosta. Il clima di scontro, in entrambi gli scenari, resta elevatissimo e si mischiano negli aderenti alle forze politiche - in modo schizofrenico - i due sentimenti, quello dello scontro con gli altri («Banzai!» come attacco verso l'avversario) o quello di una propria affermazione («»Banzai!» come grido di giubilo).
Atteggiamenti entrambi legittimi, ma che forse allontanano dalla realtà. L'esperienza mi ha portato ormai a diffidare di "larghe intese" e di "governissimi", modello oggi in atto a Roma, perché snaturano il principio democratico, che prevede una maggioranza ed un'opposizione. Credo che con correttezza si debba ragionare sui singoli dossier, nel rispetto dei propri ruoli, sapendo che non è una stranezza che l'opposizione miri a governare.
Questo è quanto manca del tutto ad Aosta, dove un potere autocratico (una persona decide per tutti, in barba a meccanismi democratici che sono in questo caso pura facciata) impedisce un corretto rapporto dialettico fra chi governa e chi fa opposizione per la convinzione di fondo che certi meccanismi di confronto siano solo una perdita di tempo. Questo appare nella sostanza, anche se non lo dice mai esplicitamente in uno straordinario equilibrismo fra quel che avviene concretamente e quello che si vorrebbe far intendere all'opinione pubblica, specie con il messaggio «non posso lavorare, perché me lo impediscono», ma è naturalmente uno specchietto per le allodole.
Credo che sia il primo atteggiamento (uniti benché molto diversi, perché obbligati da qualcosa di immanente) che il secondo comportamento ("non possumus", nel senso di negare reali aperture per risolvere i problemi) non portino da nessuna parte.
Come si legge in "Alice nel Paese delle Meraviglie" del bizzarro Lewis Carroll, alias Charles Lutwidge Dodgson: "«Gatto del Cheshire», chiese Alice. «Mi diresti per favore, che strada devo prendere per andarmene da qui?»
«Dipende molto da dove vuoi andare», disse il Gatto. «Non mi importa molto il dove», disse Alice. «Allora non importa quale strada prendi», disse il Gatto"
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Senza malinconie

"Fugit inreparabile tempus", scriveva Virgilio, esprimendo quel senso che - specie dopo una certa età - diventa un rumore di fondo nella propria vita, soprattutto quando hai la fortuna di poter vedere, come avviene con il impronte lasciate sulla sabbia in una spiaggia, il bel pezzo di cammino già percorso.
Eppure è vero che questa estate è passata particolarmente in fretta. Mi piacerebbe poterla tirare come un elastico, ma le giornate che si accorciano e i colori che stanno mutando con lentezza infinitesimale sono il disegno della stagione declinante.

La sindrome di Stendhal

Una delle classiche iconografie di Napoleone BonaparteNon si può che pensarci con stupore - annotate questo termine - all'impresa che iniziò, sul territorio valdostano, il 14 maggio del 1800, quando 40mila soldati dell'Armée de Reserve, sotto la guida del Generale Napoleone Bonaparte, allora trentenne (qui in effige durante l'attraversamento del Colle), iniziarono la discesa verso Aosta dalla sommità del Colle del Gran San Bernardo per la seconda Campagna d'Italia. Vorrei avere una macchina del tempo e appostarmi in un belvedere per osservare la fiumana di gente e animali delle truppe e registrare la stupefatta reazione dei nostri montanari, che nei loro costumi carnevaleschi hanno impresso i segni di quell'episodio.
Fu poi a Bard - e la storia verrà ricostruita fra due giorni con abiti d'epoca e eserciti contrapposti come 213 anni fa - che si scrisse una delle pagine più importanti nell'incrociarsi della "grande" Storia con la nostra Storia locale.
In quell'esercito c'era anche Henry Beyle, che diventerà ben più noto sotto lo pseudonimo letterario di Stendhal, al tempo appena 17enne. Molti anni dopo, nel suo romanzo autobiografico "La vie de Henry Brulard", Stendhal tornò con la memoria a quella battaglia dei francesi contro gli austro-piemontesi ai piedi del Forte di Bard: "...la cannonade de Bard faisait un tapage effrayant; c'était le sublime, un peu trop voisin pourtant du danger. L'ame, au lieu de jouir purement, était encore un peu occupé à se tenir... C'était pour la première fois que je trouvais cette sensation si renouvelée depuis: me trouver entre les colonnes d'une armée de Napoléon".
Ma dicevo all'inizio dello "stupore", quello che Stendhal proverà, in forma patologica, dopo la visita nel 1817 della Chiesa di Santa Croce a Firenze : "Absorbé dans la contemplation de la beauté sublime, je la voyais de près, je la touchais pour ainsi dire […] En sortant de Santa Croce, j'avais un battement de cœur, la vie était épuisée chez moi, je marchais avec la crainte de tomber".
Questa sensazione, che si declina poi in forme più o meno forti, diventerà nota e accertata scientificamente come "sindrome di Stendhal", che la "Treccani" medica così descrive: "Complesso di manifestazioni di disagio e sperdimento psichico conseguenti a una forte esperienza emozionale subita, in particolare, da visitatori di centri storico-artistici dove più forte e caratterizzante è il contesto culturale. La definizione della sindrome è stata fatta in rapporto a quanto lo scrittore francese Stendhal scrisse dopo essere stato in visita alla chiesa di Santa Croce in Firenze. (....) L'analisi della sindrome ha messo in evidenza le complesse interazioni psicosomatiche che possono attivarsi in alcuni individui, con particolari condizioni psichiche predisponenti, quando il contesto ambientale favorisce gli aspetti di sradicamento rispetto alle proprie abitudini di vita".
A me, in una logica estatica, qualche volta è capitato di trovarmi di fronte a panorami naturali o a monumenti in uno stato psichico di totale ammirazione e rapimento. Penso a certi scorci delle montagne valdostane, a orizzonti tropicali, a scorci di città come Roma o Parigi. Se la malattia non è troppo grave, con il Leopardi, "il naufragar m'è dolce in questo mare".

Notre jardin

Una copia del 'Candide'In "Candide, ou l'Optimisme", un "conte philosophique", Voltaire conclude con una frase di quelle che appassionano gli interpreti. Si tratta del famoso: "Il faut cultiver notre jardin".
Trovo, in un sito francese, una bella frase di Hannah Arendt, autrice acuta, che così spiega la metafora: "La culture serait à l'esprit ce que l’agriculture est à la terre".
Illuminante è anche una frase che nel 1773 scrive lo stesso Voltaire a D'Alembert: "Si j'ai encore quelque temps à vivre, je le passerai à cultiver mon jardin comme Candide".
Trovo che sia importante che questo appello, che crea un parallelo fra la concretezza dell'agricoltura e quella della cultura, ci consenta una lettura contro una terribile tentazione: quella che la definizione "notre jardin" assuma una logica di isolamento umano e politico. Guardare ai propri interessi non può mai significare sottrarsi a dimensioni più vaste: penso al contesto mondiale o a quello europeo, che mai vanno considerate come dimensioni così vaste da sfuggire ai nostri interessi. Diventerebbe cioè quello che veniva chiamato, usando il latino, un "hortus conclusus", cioè un orto recintato, come dimensione esclusivamente privata e intima della propria vita.
Leggo in questi giorni molte cose sulla Siria, che è uno storia ormai infinita di dolore e violenze (e penso anche al povero giornalista de "La Stampa", Domenico Quirico, rapito nell'aprile scorso, mentre lavorava in quel Paese). Avevo trovato utile, giorni fa, l'incipit di un editoriale sul "Le Nouvel Observateur" di Laurent Jauffrin: "L'absence de riposte des Occidentaux face à l'utilisation d'armes chimiques par le régime d'Assad délivrerait à tous les dictateurs de la terre un passeport pour la barbarie.
Le crime de Bachar al-Assad change tout. Cette fois, l'intervention occidentale n'est pas une hypothèse, une tentation hasardeuse ou un impératif moral plus ou moins justifié. C'est une évidence"
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Ma ecco il punto centrale nel ragionamento: "Saddam Hussein mis à part, aucun pays n'a fait usage de l'arme chimique au combat depuis près d'un siècle. Une convention internationale en bannit l'usage et c'est l'une des rares à être respectées. On dira que la Syrie ne l'a pas signée. Mais justement : peut-on, si l'on souhaite contenir un tant soit peu la violence des Etats, tolérer sans rien faire une telle exception, qui contredit l'accord tacite de toutes les nations?".
La tesi interventista, che ha perso colpi dopo il "no" del Parlamento inglese: è espressa con evidenza, ma a me - che sull'interventismo nutro gran dubbi, pensando a come l'Occidente si è impegolato negli ultimi anni in diversi scenari di guerra - interessa semmai il filo del ragionamento, così come porta, alla fine, all'ultimo interrogativo. Nella sostanza: l'uso dei gas - se accertato davvero, sia chiaro - rompe un tabù e se la comunità internazionale (definizione astratta un po' flou, lo ammetto) facesse finta di niente assicurerebbe un passe-partout di orrore ai dittatori di ogni genere sparsi nel mondo.
Agire in qualche modo è dunque necessario e potrebbero essere misure vere e serie di embargo e di isolamento per il regime siriano. Certo è che si è visto, per l'ennesima volta, come il pesi il gioco dei veti incrociati nel Consiglio di Sicurezza dell'ONU e dunque come il diritto internazionale resti fondato sulle sabbie mobili. Ogni "jardin", se troppo chiuso, non servirà mai per coltivare una visione d'insieme - solidaristica, a favore dei popoli che subiscono ingiustizie e sofferenze - tradendo, in fondo, quella speranza di un mondo davvero migliore.

Della Liguria e non solo

Christian Estrosi, sindaco di NizzaI Caveri, ovviamente nella linea parentale paterna, vengono dalla Liguria, in origine da Genova e poi da Moneglia e anche mia mamma, Timo di cognome, viene da Imperia, precisamente dall'antico insediamento dei Liguri Ingauni di Castelvecchio di Oneglia, città che fu - assieme a Nizza - per secoli lo sbocco al mare dei Savoia.
Il mio bisnonno, Paul, poco dopo l'Unità d'Italia, arrivò ad Aosta, come sotto-Prefetto e dunque i miei figli sono ormai i Caveri in Valle d'Aosta di quinta generazione. Mio zio Séverin, che ci teneva alla rete parentale, ha spiegato, in un suo libro, l'intrico derivante dai matrimoni qui in Valle.
Però, per le lunghe vacanze sin da piccolo per più di due decenni e per molte frequentazioni in politica, conosco bene la Riviera di Ponente e penso di aver conosciuto bene i liguri, che hanno dietro alle loro coste una montagna, dove si fondono Alpi ed Appennini.
Ovviamente è difficile individuare una sola tipologia, perché si farebbe solo della caricatura, ma è vero che in questa piccola Regione, proprio per l'intelligenza dei suoi abitanti, restano grandi chance di sviluppo, pensando che è il naturale sbocco al mare per milioni di persone che vivono nelle Regioni giusto a ridosso.
Purtroppo la politica di sviluppo del dopoguerra è stata devastante e speculativa e io stesso, quando vedo certi scempi, rispetto ai ricordi della mia infanzia, soffro di tanti sbagli di fronte a un patrimonio così unico. Penso che sarebbe bello se una delle missioni dell'Euroregione Alp Med, ammesso che prima o poi abbia un vero status giuridico e non viva nel limbo attuale che rischia di farne una barzelletta, fosse quella di ricucire le vecchie ferite del passato e ragionare su di uno sviluppo organico di quel pezzo di Mediterraneo che va dalla provincia di La Spezia sino alla Camargue, attraverso zone straordinarie, segnate da uno spessore di civiltà che si sono incrociate.
Chi lo ha capito è pure il sindaco di Nizza, Christian Estrosi, che dopo aver preso una serie di nasate da Parigi, come il mancato allungamento sino alla sua città della linea ferroviaria del "Tgv", ha cominciato a guardare - come fanno altri politici della grande Regione di Provence-Alpes-Côte d'Azur - verso la Liguria in un logica di prossimità territoriale, che ha radici storiche e culturali profonde.
Questa è la vera Europa, la stessa che agisce da collante per le Alpi, che sono un altro dei territori di Alp Med, perché del mare abbiamo detto, ma dietro ci sono le montagne che come serpenti di roccia segnano, con un massiccio lunghissimo, l'Europa e la nostra parte è quella delle Alpi più alte. Questa commistione mare e montagna finisce per essere rappresentata in modo evidente dagli abitanti storici, non quelli baciati dal Fisco, del Principato di Monaco - di cui il Principe Alberto è esempio - perché sono mediterranei che amano e frequentano la montagna, non a caso, proporzionalmente, vantano un grande club alpino.
Sarò un utopista o un visionario, che poi sono più o meno la stessa cosa, ma a me questa Europa che destruttura le vecchie armature in cui sono stati costretti i popoli europei, con confini spesso stupidi e rozzi, piace moltissimo. Penso che sia il futuro, di cui godranno i nostri figli e questo fa della Valle d'Aosta un ponte naturale. La scelta è essere "cul de sac" o "testa di ponte" nel dialogo fra l'area francofona e l'Italia. Io nel sacco non ci voglio stare!
Così per la Liguria, che ha nel mare la sua sorgente e nell'entroterra le sue radici.

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