November 2012

Il futuro del sistema autonomistico

I ministri con la nuova mappa delle ProvinceIn Italia scendono da 86 a 51 le Province e nascono dieci città metropolitane, compresa quella di Torino, nostra vicina (sparisce Biella accorpata a Vercelli). Si compie così una riforma all'italiana, nel senso che dall'abolizione delle Province - atto che sarebbe dovuto avvenire nel 1970 quando nacquero le Regioni a Statuto ordinario - si è passati ad un accorpamento forzoso che farà discutere ancora per mesi. Forse, per chi crede nella particolarità dei territori montani, spicca la decisione saggia di far vivere le Province di Belluno e di Sondrio.
Questa riforma a metà si accompagna a manovre altrettanto forzose per far dimagrire il numero dei Comuni italiani, che oggi dovrebbero essere in totale 8.092. A colpi di spending review i Comuni, ormai stremati dalle manovre finanziarie, diminuiranno con logiche di accorpamento di vario genere. Anche in questo caso la procedura imposta non ha nulla di condiviso, benché di certo una razionalizzazione - in corso in tutta Europa - fosse una necessità.
Ma i professori-tecnici al Governo amano governare a colpi di decreto legge senza guardare in faccia nessuno. Per nostra fortuna, per quanto indegnamente spennati dal Governo (ieri però la Corte costituzionale ha ripristinato alcune regole a noi favorevoli a tutela del nostro riparto fiscale), resta intatta la competenza sull'ordinamento degli Enti locali del 1993. Competenza primaria che ci ha consentito di impostare un sistema autonomista sotto il profilo finanziario e organizzativo piuttosto originale e funzionante, facendo dei Comuni interlocutori veri della Regione in una logica di confronto che naturalmente funziona se ci si esprime davvero.
Ed è quanto mi auguro avvenga nelle prossime settimane per ridisegnare il ruolo di Comuni e Comunità montane in una logica di gestione comune dei servizi e varie economie di scala e per calare sui nostri poteri locali logiche di risparmio su quelli che vengono chiamati i "costi della politica", che sono poi numeri di Consigli e Giunte e indennità degli eletti.
Ma la vivace riunione dei Sindaci di due giorni consente di cogliere intanto una preoccupazione che riguarda non solo la necessità di leggi regionali in materia frutto di una leale cooperazione, ma anche il fatto che il sistema autonomistico locale arrivi all'appuntamento in una situazione comatosa per via della conseguenza dei tagli ai trasferimenti finanziari e del paradosso italiano di un "patto di stabilità" che congela l'uso del denaro anche quando i soldi ci sono.
Il timore è che alcuni enti non chiudano i bilanci e che debbano ricorrere ad un aumento della tassazione (intanto resta il mistero di come sarà l'IMU nel 2013) e che si arrivi a tagli o ridimensionamenti di servizi ai cittadini e all'impossibilità di effettuare lavori pubblici urgenti. I sindacati non nascondono il timore di esuberi anche nell'impiego pubblico comunale.
Insomma: bisogna operare per evitare che una riforma del sistema delle autonomie locali si applichi in un clima di eccessiva incertezza economico-finanziaria, frutto dei tagli insensati del Governo Monti, perché in quel caso le formule associazionistiche di "unione" dei Comuni, comprese le Comunità montane da rinnovarsi, non metterebbero assieme solo risorse e personale ma condividerebbero una situazione di nuova povertà foriera di un indebolimento complessivo della nostra autonomia.
Temi non semplici che obbligano a uno sforzo di ingegno dei diversi soggetti, anzitutto il legislatore regionale cui compete mettere mano alla materia.

A viso aperto

Via ZigZag, nel villaggio francese di MartelSarà che passano gli anni e l'esperienza insegna e innesca dei meccanismi da "sesto senso". Ma io ormai li vedo lontano un miglio e ne sento l'odore a occhi chiusi, come fanno i cani "da trifola" prima di scavare.
Sono i "puri" di tutte le provenienze che gridano contro il Palazzo (metafora del potere inventata da Pier Paolo Pasolini) e i suoi occupanti, qualunque essi siano al momento e senza distinguo fra storie personali e comportamenti. L'invettiva o il manifestarsi seguono un copione e un fine, il proprio.
La compagnia di giro è varia. Ci sono i cavalcatori dell'antipolitica e dell'antiparlamentarismo oggi di gran moda (e i politici se la sono cercata), ci sono quelli che attaccano la demagogia e ne sono la massima espressione, ci sono quelli che dicono di «no» ma non propongono alternative (dalla protesta alla proposta...), ci sono quelli della "società civile" (e gli altri sarebbero perciò di quella "incivile"), ci sono i fautori di campagne che sprizzano odio quando la dialettica politica marcisce, ci sono i giornalisti "a tesi" che scrivono notizie e commenti facendo un unico minestrone fra fatti e opinioni.
Spesso sono il diavolo e l'acqua santa, un tempo si scherzava sui "cattocomunisti" o sui "radical-chic", ma oggi la galassia è ancora più vasta. Mi riferisco a certi sindacalisti che dicono peste e corna dei politici, come se loro fossero invece esseri "angelicati" e non frutto dello stesso sistema che disdegnano. Così associazioni varie che risultano poi essere solo trampolini per prendere il posto di chi si metterebbero al rogo.
Ci sono poi quei manager di vario genere, specie pubblico e para-pubblico, che disegnano nel tempo - come i trapezzisti del circo - il momento in cui spiccare il salto verso la politica. Ma dicono - tipo Monti & c. - che «è una "chiamata" per dare ricambio alla politica», di cui - questo è il lato comico - sono stati burattini genuflessi al burattinaio, ma fingendo, con classe, l'esistenza di un loro spazio vitale.
Il paradosso è che tutto questo ribollire nasconde l'ambizione di scalarlo quel maledetto Palazzo e molto del "cinema" che viene fatto è solo a questo fine. Scelta legittima, e non difendo qui nessuno di quelli che del Palazzo, anche perché conosco meglio di altri vizi e virtù.
Osservo solo che sarebbe più credibile farlo a viso aperto, declinandolo così: «io propongo e mi pongo con nettezza sul mercato della politica e mi metto in gioco della serie "o la va o la spacca"». No, si fanno invece larghi, percorsi zigazaganti, si cerca l'onda da cavalcare, si gioca la carta del nuovismo.
E poi si arriva al dunque: la politica.

La forza dell'epitaffio

Il cimitero di Valgrisenche«Parmi les poètes qu'on peut rapprocher du courant parnassien, Edouard-Clément Bérard (1862-1952) ressent l'influence d'Anselme Perret: on lui doit le recueil "Les loisirs d’un solitaire" (1942) et les épitaphes en vers qui font du cimetière de Valgrisenche une sorte d'"Anthologie de Spoon River"».
Così Joseph Rivolin ricorda l'autore più importante degli incredibili epitaffi - cioè le iscrizioni sepolcrali in forma di breve componimento in versi - del cimitero di Valgrisenche che raccontano la vita quotidiana di un nostro villaggio di montagna. Sono, specie nella logica non solo elogiativa, una ricchezza originale. Il riferimento a Spoon River ci sta: si tratta del celebre libro di poesie dell'americano Edgar Lee Masters che, appunto usando l'epitaffio, racconta la vita delle persone sepolte nel cimitero di un paesino, come realmente avvenuto a Valgrisenche.
A me piacciono gli epitaffi, che sono come dei "Tweet" del passato per la loro secchezza. Leggete questo: «Nostalgia della vita in me riaffiora / e fa triste la tomba che mi onora». Lo ha scritto, ed è molto bello, il poeta Sandro Penna.
E l'ironia tombale di Georges Bernanos: «Si prega l'angelo trombettiere di suonare forte: il defunto è duro di orecchie».
Questo epitaffio è politico: «Sono figlio della libertà, ad essa devo tutto quello che sono». Firmato, a futura memoria, da Camillo Benso conte di Cavour.
Bello è anche questo pensiero sulla tomba del filosofo Immanuel Kant: «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me».
Sconvolgente quel che figura sulla lapide di Primo Levi, morto suicida: "174517". Era il numero identificativo che Primo Levi portava tatuato dai nazisti sul suo braccio nel campo di sterminio di Auschwitz.
Ma concludiamo in letizia raccontando il gioco - che andrebbe coltivato anche in Valle - degli epitaffi "in vita". Li faceva quello spirito caustico del grande giornalista Indro Montanelli. Sentite cosa scriveva dei "premi Nobel" per la letteratura, celebri poeti: «Qui riposa Eugenio Montale, baritono»; «Qui riposa il poeta Salvatore Quasimodo nella luce splendente dell'immortalità. Ed è subito sera».
Sfotteva così un celebre azionista: «Qui non giace Pietro Calamandrei. Cercatelo nella tomba di sinistra».
Così Montanelli rideva del suo maestro: «Qui riposa, per la pace di tutti, Leo Longanesi. Uomo imparziale, odiò il prossimo suo come sé stesso».
E così prevedeva il suo stesso epitaffio: «Qui riposa Indro Montanelli. Genio compreso, spiegava agli altri ciò ch'egli stesso non capiva».
Grande autoironia, merce rara.

Temi che fan tremare i polsi

La facciata di 'Maison Regina' che ospita la microcomunità di GabyStrutturare per i prossimi anni la politica sociale della Valle d'Aosta non sarà uno scherzo e porrà la politica di fronte a scelte delicatissime e che toccano tutti.
L'assioma è ormai ben noto: ci saranno meno soldi e di conseguenza meno servizi alla persona e alla famiglia. L'impatto brutale è stato per ora solo annunciato, ma gli ulteriori tagli al nostro riparto fiscale creeranno uno scenario purtroppo doloroso ma banale. Bisognerà scegliere dove, come e quanto tagliare. Si tratterà di priorità mica da ridere, dopo anni in cui si sono allargate prestazioni di vario genere e tornare indietro rispetto a quanto acquisito non è mai facile da spiegare. Ma la questione per molti versi è ancora più complessa, come posso mostrare con due fra i tanti esempi possibili.
Pensate - ed è il primo caso - alla Finanziaria regionale del prossimo triennio e a un dilemma mica da ridere: a fronte di un aumento della popolazione anziana, i tagli agli enti locali rischiano di mettere in forse l'esistenza stessa delle microcomunità per anziani più piccole, specie nelle vallate, mentre quelle appena rifatte rischiano di non essere aperte per via di problemi finanziari e di personale. Se a questo si somma la difficoltà di bilancio nel sostegno alle badanti per gli anziani. allora il cerchio, in negativo, si è chiuso perché il sostegno pubblico ad un'assistenza in casa serviva proprio ad evitare troppe richieste per le "micro". Esempio di difficoltà da affrontare in una società che invecchierà ancora e con "grandi vecchi" che, quasi in automatico, finiscono ormai per cadere nella disabilità più o meno grave con il terribile problema delle persone affette da morbo di Alzheimer.
Cambiamo scenario per la seconda considerazione: in Valle non si ferma l'arrivo di stranieri, che oggi rappresentano il dieci per cento dei residenti. Perché, a fronte della crisi economica, non decrescono come avviene altrove? Per la qualità dei servizi a beneficio di questi nuovi cittadini che coprono ormai, con il ricongiungimento delle famiglie ai lavoratori giunti anni fa, diverse fasce d'età e con condizioni familiari che consentono loro di fruire di diverse forme di aiuto e di risultare favoriti nelle diverse graduatorie che siano la casa, l'asilo, la microcomunità. A questa crescita corrispondono prestazioni inferiori per chi c'era già per ovvie ragioni, peggiorate - come dicevo in premessa - dal ridursi delle disponibilità finanziarie pubbliche e dalla concorrenza accresciuta in un mondo del lavoro con meno possibilità d'occupazione,
I due esempi innescano diverse riflessioni. Pensate allo scontro fra generazioni in società demograficamente orientate alla vecchiaia con base ristretta di lavoratori attivi. Immaginate cosa significherà l'incomprensione di parte della popolazione contribuente per quei servizi forniti a immigrati di recente arrivo nella nostra comunità, pur contribuenti anche loro. Riflettete su cosa significhi una coperta troppo corta che, comunque tu la tiri, scopre qualcosa e ciò in più implica, in un momento già di crisi, una maggior compartecipazione economica dei cittadini che si somma al salasso delle tasse, dei tributi e delle tariffe.
Tematiche colossali da affrontare senza tabù per evitare che i nodi arrivino al pettine in modo traumatico.

Passaggi da ricordare

Il monumento a Mauro Minghetti a BolognaDopo il fascismo, che aveva creato una dittatura ferocemente centralistica, i padri costituenti scelsero, non a caso e come antidoto contro future svolte autoritarie, la strada del decentramento e del regionalismo. Oggi chi vuole tornare indietro su questo punto o è picchiatello o in grave malafede e con tentazioni che mi preoccupano.
Sarebbe bene che questo punto, cioè quello di una "Repubblica delle autonomie" come atto fondativo irreversibile, fosse chiaro in quest'epoca di controriforma con una deriva contro Regioni e Comuni nel nome di un neonazionalismo ora economico-finanziario che diverrà politico-costituzionale.
Eppure, non a caso, la Costituzione così recitava all'articolo 114 della Costituzione: "La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni". Questo stesso articolo, nel contesto di una visione che doveva rafforzare il Titolo V della Costituzione in senso filoautonomistico, venne così modificato dalla riforma costituzionale del 2001: "La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato".
Questa scelta recuperava i diversi pensieri di chi - tipo Antonio Rosmini, Vincenzo Gioberti, Carlo Cattaneo, Giuseppe Mazzini - pensava, con diverse sfumature, ad un'Italia che avesse un'organizzazione regionalistica per evitare un eccessivo accentramento nell'Italia unita.
Non a caso e proprio all'inizio fu Luigi Carlo Farini, Ministro degli Interni del I Governo Cavour a presentare alla Camera un disegno di legge, approvato il 24 giugno 1860, per la istituzione presso il Consiglio di Stato di una Commissione legislativa per lo studio e la compilazione di progetti di legge sulla riforma dello Stato.
Il lavoro compiuto prevedeva una forma di regionalismo ripreso da Marco Minghetti, successore di Farini al Ministero degli Interni, che presentò nel 1861 alla Camera dei Deputati una riorganizzazione amministrativa dello Stato attraverso apposite proposte di legge.
Minghetti spiegava, nella relazione illustrativa, come l'unità politica non dovesse comportare per forza l'unità amministrativa proprio per le differenze d'interessi e di tradizioni delle diverse comunità regionali che non potevano essere distrutte o "unificate" artificialmente in un'unica indifferenziata forma di disciplina o di ordinamento. L'idea, che avrebbe cambiato in meglio i destini italiani, venne bocciata dai deputati e morì per mano delle misure centraliste che seguirono. Ci vollero più di ottant'anni per avere un disegno regionalista nella Costituzione e più di cento anni complessivi per una sua realizzazione con le Regioni ordinarie che si affiancarono alle speciali. Solo fra le due guerre, prima dell'avvento del fascismo, il tema del decentramento e delle Regioni era tornato del dibattito parlamentare e va detto che in Valle d'Aosta - su spinta del desiderio di forme autonomistiche a beneficio del popolo valdostano - il dibattito, anche in piena Italia liberale, si mantenne vivace e questo fu l'humus da cui è nata l'autonomia speciale.
I valdostani sono sempre stati punta di diamante del dibattito sul regionalismo e poi del federalismo, pur nella limitatezza delle forze. Oggi c'è chi ci dipinge come dei profittatori neghittosi (e non torno sulla balla dei francesi che ci avrebbero cucinato l'autonomia). Che pena!

Le parole hanno una storia

La mancanza di iodio, contenuto nel sale, causava il cretinismoEnnio Flaiano, specialista in battute fulminanti, sui cretini aveva coniato due definizioni degne entrambe di menzione e che coprono un'ampia casistica nella vita quotidiana di ciascuno di noi. La prima: «oggi anche il cretino è specializzato». La seconda: «oggi il cretino è pieno di idee». Immagino che ognuno si figuri chi vuole in queste vesti.
Passo il tempo a dirmi, ma lo segnalo scherzosamente per non farmi dare per l'ennesima volta dell'antipatico, quanto il fenomeno si diffonda nell'epoca attuale e delle volte verrebbe voglia di fare un elenco dei soggetti simile al mattinale della Questura. In questo i social network non aiutano.
Ma purtroppo - e qui passiamo dal faceto al serio - è bene che quella tenue parolaccia "cretino" vada usata con consapevolezza sulle Alpi, compreso da noi perché si tratta di una pesante eredità di un tempo.
Il termine viene infatti da un'espressione francoprovenzale vallesana - i nostri vicini e cugini svizzeri - che fa derivare "crétin" da "chrétien" a causa del carattere sacro dei semplici di spirito, che potremmo definire per meglio chiarire il "povero cristo" come espressione commossa e partecipe di quella che oggi chiameremmo una disabilità. Poi che sia diventata malevola è scontato.
In questo caso ci troviamo di fronte ad un fenomeno "storico", purtroppo derivante da quella malattia, il "cretinismo", legata anche alla comparsa del gozzo e causata in montagna dall'assenza dello iodio nel sale che cagionava forme gravi di ipotiroidismo con conseguenze mentali. Traggo questo brano da 123savoie.com: "Emu et alerté, le roi Charles-Albert créa en 1845 une commission sur le sujet, composée de spécialistes en médecine, chimie et géologie dont Monseigneur Billiet, archevêque de Chambéry. L'objet était simple: enquêter puis rédiger un "dossier blanc" sur la progression du crétinisme dans les provinces et les mandements. Bien des causes de propagation furent explorées: conditions atmosphériques, nature du sol, qualité des eaux. Assistés de curés et de syndics, les médecins se répartirent entre St-Jean-de-Maurienne, Moûtiers, Albertville, Aoste, Aiton ou encore Bourgneuf; rapprochant leurs réflexions sur le crétinisme et l'affection du goitre.
Les premières études sur l'infirmité, menées au XVIe siècle, avaient déjà été suivies de publications des médecins suisses Félix Plater et Josias Smiler. Pour poursuivre l'enquête, le Dr Trombotto fut appelé à organiser les investigations. Dénommés "les marrons" en Vallée d'Aoste à cause de leur teint obscur, qualifiés de "Trissel" en Valais, appelés "Scempiaggine" en Italie, les crétins des Etats sardes allaient ainsi être soignés. Selon les médecins, le crétinisme était "une organisation manquée" sans trace de beauté, ni harmonie. Les exemples cités évoquent une petite intelligence, tel ce jeune crétin de Saint-Avre, qui gagnait sa vie en imitant le soldat. Etaient également mentionnés des "semi crétins", dépourvus de course rectiligne. "Ils manifestent une fatigue musculaire. Les hommes se limitent à porter du bois, de l'eau, à garder les troupeaux tandis que les femmes assurent la garde des enfants au berceau" soulignait les médecins. Le crétinisme resta cependant à l'état endémique dans les Etats Sardes, se limitant aux vallées profondes et humides. Son extension vint surtout de la vallée d'Aoste, à Pignerol, à Ivrée ou à Gressoney où les villages logés en fond, près des torrents, recevaient peu la lumière solaire, notamment l'hiver. Quelques villages mieux exposés, comme Gressan, Villleneuve, Ollomont étaient également concernés"
.
Malattia che oggi - avendo presente le ragioni della patologia - è scomparsa, ma mio padre mi raccontava come se ne vedessero ancora molti, quando era bambino alla fine degli Venti del Novecento, durante il mercato che si svolgeva ad Aosta e come quei gozzi esposti fossero un terribile segno della malattia.
Per cui l'uso della definizione "cretino" da noi deve avvenire con il giusto ricordo e la necessaria compassione per una parte dolorosa del nostro passato.

A proposito di alcol

Non sono mai stato astemio e confesso, naturalmente con le mie preferenze, di aver sempre considerato il "buon bere" un plus della propria vita. Come tutti ho attraversato turbolenti anni giovanili e certi eccessi che talvolta la fortuna ha voluto che non pagassi particolarmente. Lo dico senza fierezza, ma anche senza falsi moralismi.
Quando ero presidente della Regione, dunque con le celebri responsabilità prefettizie, mi ero occupato di questa questione dell'abuso di alcol in maniera assai laica e senza integralismi in una Regione dove l'alcolismo – poche balle – è e resta un fenomeno sociale. Confesso che l'esperienza di approfondire quel tema, attraverso diverse modalità, compresi dei test all'uscita di certi locali in tarda notte non per multare ma per capire, mi confermarono quanto si può temere.
L'abuso di alcol esiste e temo che in ogni famiglia, compresa la mia, ci siano stati casi veri e concreti con cui ognuno abbia potuto confrontarsi di come sia facile per chiunque attraversare quella linea di "non ritorno" che porta direttamente al cimitero.

Obama alla Casa Bianca

Barack Obama fotografato da Terry RichardsonIeri sera sono andato a dormire sereno e non ho passato la notte in bianco per seguire lo scrutinio delle elezioni americane. Solo questa mattina, vinto dalla curiosità, ho seguito gli ultimi istanti che hanno portato alla riconferma di Barack Obama ed alla sconfitta di Mitt Romney. Ribadisco quanto penso: che c'è un pizzico di provincialismo nel dispiego impressionante di forze dei media italiani per seguire le elezioni americane senza svilirne l'importanza. Osservo, ma capisco che è uno sberleffo, che non esiste neppure uno straccio di reciprocità.
Il testa a testa c'è stato ma il Presidente uscente ha vinto senza quei rischi di contestazione che aleggiavano. Confesso di non aver ancora capito bene se sia valido o meno questo metodo di voto indiretto con scarsa partecipazione al voto degli elettori e che si affianca al rinnovo delle due Camere, che si confermano una con maggioranza democratica (Senato) e una appannaggio dei repubblicani (Camera) e questo obbligherà Obama nel suo secondo ed ultimo quadriennio di Presidenza alla necessità dell'arte del compromesso.
Certo Obama è stato e sarà sfortunato: la sua avventura politica che resta straordinaria - un nero alla Presidenza è il simbolo della libertà - si è inceppata nella crisi economica e nelle difficoltà varie di uno scenario internazionale difficile ed è riuscito a vincere per un residuo di carisma ormai liso dalla difficoltà di trasformare le promesse e i programmi in realtà.
Per noi europei resta un interlocutore migliore del suo avversario repubblicano. E' scontato che i democratici siano più aperti al dialogo con il Vecchio Continente, nel limite tradizionale di una politica estera americana che guarda sempre prima al proprio ombelico chiunque sia l'inquilino pro tempore della Casa Bianca.
E' raro che in questo spazio mi avventuri nel mare procelloso della grande politica internazionale, ma questo non vuol dire non avere il dovere di seguirla. La nostra Valle d'Aosta è stato un problema politico all'attenzione della grande diplomazia per una piccola frazione della propria storia nell'immediato dopoguerra e ancora oggi stentiamo a capire certi passaggi che hanno segnato la nostra autonomia speciale. La mia tesi è nota: certamente il gioco fra Alleati ha avuto un peso in positivo e in negativo, ma le precondizioni politiche e la partecipazione popolare furono giocate dai valdostani.
Ma parlavo di Obama e del suo nuovo mandato. Nel breve volgere di quattro anni, quando lascerà la politica attiva, avrà un ruolo cardine nel rilancio dell'economia mondiale e nella ricerca di soluzioni intelligenti per spegnere i focolai di guerra che minacciano periodicamente di farci ripiombare in una guerra mondiale.

Il record dei bar

Un caratteristico bar a FénisGiorni fa la "Confcommercio", federazione piccoli esercizi, ha reso noto un dato: in Valle d'Aosta, per ogni mille abitanti, ci sono 4,6 bar, un record in tutta Italia. Pur essendo numericamente i bar solo 596, conta nella particolare classifica citata il rapporto con la popolazione e non il numero assoluto. Insomma: se tutti i valdostani decidessero di andare in contemporanea al bar ogni locale ospiterebbe circa duecento persone...
Visto che la statistica normalmente ci penalizza (numero di alcolisti, di suicidi, di dipendenti pubblici), questo record - in verità non del tutto inaspettato per chi si guardi intorno - ci deve riempire il cuore. L'unica difficoltà - ma è la statistica, ragazzi - deriva da questo dato del "0,6" che dà l'idea di un baruccio piccolo piccolo, fatto apposta per soddisfare la sete statistica.
Che i bar siano diffusi nessuno lo sa meglio di un politico: prima che i Comuni si dotassero di saloni comunali, ma anche in epoca successiva, il comizio di paese si svolgeva in genere al bar. C'era davvero da mettersi d'impegno vista la location, una sorta di "prova del fuoco" per il politico in erba. Ricordo serate memorabili con in chiassosi locali di bar con il vociare, il tintinnio dei bicchieri, i rumori secchi di preparazione della macchina del caffè, il fumo spesso delle sigarette e lui, l'immancabile ciucco del paese, che ti interrompeva al culmine della tua retorica oratoria o gridava improperi a casaccio tanto per disturbare. Una volta affrontato il cimento, sei pronto a tutto e parlare nell'aula di Montecitorio risulterà uno scherzo.
Venendo da Verrès che, con una ventina di bar, forse detiene il record nel rapporto fra bar e consumatori, sono vissuto sin da piccolo nell'osservazione dei bar o come si diceva nel Settecento, agli albori del fenomeno illuministico, del "caffè" (così venne battezzato non a caso il più famoso dei giornali degli illuministi milanesi).
Poi crescendo, pur non potendo vantare frequentazioni di un bar in particolare, ho visto bar di tutti i generi e in ogni Paese che ho frequentato ritenendolo luogo esemplare per l'osservazione di usi e costumi, ma nel cuore ne ho alcuni qui in Valle che ricordo. Da bambino, era un mito il "Bar Giovanetto" nel cuore di Verrès, dove gli adulti bevevano e giocavano a biliardo, da ragazzino invece ricordo, in fondo al paese, il "Bar Sabot", più adatto a noi giovani che ci avvicinavamo ai primi spazi di libertà personale.
Ma c'erano amici che dei bar erano proprietari: come non evocare il "Bar Favre" sul ponte di Champoluc, il bar dell'Alpenrose davanti al "Weismatten" di Gressoney-Saint-Jean e la "Tana del lupo" sulle piste di Ayas che ragazzi della "compagnia" decisero di gestire con danni patrimoniali alle rispettive famiglie per eccessi da bisboccia. O ancora: i pomeriggi passati con i miei cugini da "Lise" (autrice dei dolcetti noti come "meline") a Pont-Saint-Martin, dove ho imparato a giocare a belote e come nel evocare il bar della "Spiaggia d'Oro" a Porto Maurizio con jukebox d'ordinanza dove nascevano i primi amori.
Oggi i bar che più traffico sono i quattro o cinque nel perimetro attorno al Palazzo regionale, che poi sono al centro d'Aosta. Lì si inanella parte della politica locale e anche quelli che nelle riunioni ufficiali tacciono accondiscendenti ritrovano d'improvviso, nel rito del caffè o dell'aperitivo, la favella e fanno e disfano. I bar hanno un quid di miracoloso.
Una giusta inquietudine deriva semmai dal fatto che il più piccolo dei miei figli, quasi anni due, interrogato su cosa volesse mettere nella letterina a Babbo Natale, oltre alla bicicletta e a un cane, ha chiesto «un bar»...

Fra lupi e escrementi

Il lupo e Cappuccetto Rosso di una famosa appNon sono superstizioso: amo i gatti neri, passo sotto le scale, se verso il sale me ne sbatto e non ho portafortuna con me. Rispetto chi ci crede (o ci casca) e un giorno scriverò di politici che si sono fatti fare previsioni da chiromanti e maghi. Incredibile ma vero perché finché si scherza, si scherza.
Per questa mia indifferenza verso l'occulto ogni tanto faccio delle gaffe, con l'uso di «auguri» e «buona fortuna» in circostanze sbagliate con persone che reagiscono con nervosismo e fanno gli scongiuri. Ed io prontamente reagisco con «in bocca al lupo!», così sono tutti contenti, meno il lupo che tradizionalmente «crepa».
L'altro giorno guardavo cosa dicesse in proposito il bel sito dell'Accademia della Crusca, che accorcio in buona parte: "I dizionari consultati in merito sono concordi nell'attribuire alla locuzione "In bocca al lupo!" una funzione apotropaica, capace di allontanare lo scongiuro per la sua carica di magia. L'origine dell'espressione sembra risalire ad un'antica formula di augurio rivolta per antifrasi ai cacciatori, alla quale si soleva rispondere, sempre con lo stesso valore apotropaico "Crepi!" (sottinteso: il lupo). L'augurio, testimonianza della credenza nel valore magico della parola, si sarebbe esteso dal gergo dei cacciatori all'insieme delle situazioni difficili in cui incorre l'uomo. (...) L'augurio "In bocca al lupo!" potrebbe essere ricollegato anche ad altre numerose espressioni che hanno per protagonista il lupo, nonché all'immagine stessa di questo animale nella lingua. Il lupo appare nella tradizione antica e medioevale come il pericolo in persona: animale crudele, falso e insaziabile nella sua voracità egli seminò la morte e il terrore tra abitanti indifesi, pastori e cacciatori, diventando l'eroe di favole (da Esopo e Jean La Fontaine alle numerose versioni del Cappuccetto Rosso) nonché di numerose leggende e storie tramandate per generazioni attraverso l'Europa".
Ma quel che mi diverte è come se vai nel mondo francofono si usa il più prosaico «Merde!» e per altro va detto che il termine ha usi plurimi e vari. Nel caso in esame - me lo raccontava divertito un collega consigliere regionale - la storia della parola portafortuna è divertente e la riporto come capiata da un sito qualunque: «Il s'agit à l'origine d'une superstition théâtrale, qui s'est élargie à tous les secteurs. Souhaiter "bonne chance" porterait malheur, et l’expression a donc été remplacée par un autre mot. Le choix du mot "merde" daterait de l'époque où les spectateurs se faisaient déposer en calèche devant les théâtres, halte durant laquelle les chevaux en profitaient pour se soulager et garnissaient la rue de crottin. Cette "garniture" étant directement proportionnelle au nombre de spectateurs, c'était faire preuve de bienveillance que de souhaiter "beaucoup de merdes" aux artistes».
Insomma, ogni epoca ha nei trasporti una sua forma d'inquinamento.
Io resto convinto che, sincronizzando gli orologi, potremmo dire più facilmente «auguri» senza dover evocare il lupo e gli escrementi.
Ma temo che abbia ragione il napoletanisissimo Eduardo De Filippo, che diceva sul filo del paradosso: «Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male».

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