October 2011

Lascia stare i Santi...

La teca con le reliquie di San Grato durante la tradizionale processione aostanaLa sparizione della festività civile - in soldoni il "giorno di vacanza" - connessa alla festività religiosa dei patroni, santi protettori di ciascun Comune italiano è, in molti casi, un vero e proprio attacco alle tradizioni. «Scherza coi fanti ma lascia stare i santi», verrebbe da dire a Silvio Berlusconi, che sembra pure aver perso quel feeling con la Chiesa, difficilmente accusabile di essere "comunista".
Togliere la festività è togliere quel poco di "federalismo" delle festività che consentiva ad ogni campanile di avere un "suo" giorno di vacanza. Ovvio che ciò aveva dei limiti, perché il giorno di ferie coincideva grossomodo con la sede del luogo di lavoro e questa non sempre era uguale al luogo di residenza.
Il caso della "Festa della Valle d'Aosta" e la scelta della data per festeggiarla nasceva da varie combinazioni concomitanti. Era il giorno in cui si tenevano le udienze generali del Duché d'Aoste con i regnanti ed è stato, per caso, il giorno dell'emanazione nel 1945 del Decreto luogotenenziale che ha sancito la prima forma autonomistica della Valle dopo il fascismo. Ma soprattutto è da secoli il giorno di San Grato, Patrono della Diocesi di Aosta con una commistione da sempre fra momenti religiosi, come la celebre processione, e festeggiamenti civili.
Il fatto che fosse giorno di festa ad Aosta era importante per fare della "Festa della Valle d'Aosta" una vera e propria festa popolare e anzi all'epoca avevo cominciato a guardare se potessero esistere modalità per farne una festività per tutta la Valle.
Ma la nostra Autonomia speciale non ha purtroppo il respiro per farlo ed è illuminante rispetto a certi limiti dei nostri poteri. Altro che federalismo!
Oggi la soppressione colpisce al cuore lo sviluppo futuro della Festa e bisognerà decidere cosa farne e come unificarla con quella celebrazione - per nulla sentita dalla popolazione - del giorno di emanazione dello Statuto d'autonomia, il 26 febbraio del 1948, che si attesta da anni nell'ultima domenica di febbraio.
Va trovata una soluzione intelligente e speriamo che i Patroni, dal cielo, facciano sapere con qualche saetta il malumore per il ridimensionamento delle feste locali in loro onore con l'abrogazione per legge dell'ufficialità di momenti collettivi dalla vertiginosa profondità storica.

Un vino nuovo, metafora della viticoltura

Un fotogramma del film sul 'Donnas'Concludere una serata, come mi è capitato ieri sera, con un buon bicchiere di vino nuovo, il "Jalon" (pietra miliare), è un privilegio. A Donnas sono iniziati così i festeggiamenti per i quarant'anni della cooperativa che coincidono con l'ottenimento della "Doc" del "rosso" derivato da un vitigno di Nebbiolo ("Picotendro" in patois), il primo vino a denominazione d'origine in tutta la Valle.
Negli anni passati, il vino è costantemente migliorato e forse l'unica preoccupazione è il progressivo aumento dell'età media dei vigneron ed è bene che i giovani prendano in viticoltura la relève. Ed in fondo è il messaggio o, se preferite, la metafora presente in questa nuova etichetta, che mette assieme un vino giovane, "tagliandolo" con uno d'annata.
Pur non essendo un esperto, ma avendomi la natura dotato di un corposo apparato olfattivo (naso), ho trovato il profumo molto buono e il gusto - spero di non venir rimproverato da qualche esperto - netto e avvolgente appunto nel mix fra freschezza e corposità.
Niente di meglio che un segno tangibile di rinnovamento nel solco di una storia millenaria della vite in questo "ingresso" della nostra Valle. Una "cartolina" che mostra a chi viene da noi un "assaggio" della nostra altimetria con queste vigne che disegnano un costone roccioso e che alternano verticalità del susseguirsi dei vigneti con il frontone orizzontale che attraversa il paesaggio.
Questo primo "colpo d'occhio", che è segno di una civiltà antica e di una montagna "coltivata" dall'uomo anche in condizioni estreme, per i valdostani è la garanzia, che scalda il cuore, di essere tornati a casa, quando dalla pianura si torna in Valle.

Storie di gatti

La micia 'Soleil' in posaHo uno dei miei gatti che è una cacciatrice. Si chiama "Soleil": ha già preso passeri, merli, ramarri, ghiri, talpe e naturalmente topi di tutte le taglie (alcuni impressionanti, altro che topini di campagna!).
Non lo fa per mangiare. Li ha sempre lasciati pressoché intatti, giusto le ammaccature per qualche gioco feroce, perché si tratta di un regalo per i suoi padroni o forse è una semplice esibizione snobistica da felino della serie «hai visto che cosa so fare?».
I gatti mi son sempre piaciuti. Ti guardano, si strusciano, fanno le fusa (ufficialmente ho sempre usato "ronfare", dal "ron ron", ma in realtà scopro che il verbo  è derivato dal russare umano, che è altra cosa), talvolta ti parlano in "gattese", ma è un amore diverso dallo stordimento dei cani che amano anche chi li tratta male. Il gatto è selettivo, non schiavo costi quel che costi.
E poi hanno sette vite (nove nel mondo anglosassone). Quando ero bambino e arrivavano nello studio di mio padre gatti moribondi, lui sentenziava: «vedrete come si ripiglia». E si ripigliava davvero. E ricordo quando li doveva addormentare e doveva iniettare al micio delle dosi da bue.
Ma un aneddoto affiora dal passato. L'azienda edile di Giordano Freydoz lavorava a Pont Savarenche alla strada, poi mai conclusa, del Col del Nivolet. Da Champdepraz avevano portato lassù in cantiere un gatto di casa, introvabile al momento della chiusura autunnale del cantiere. Mesi dopo, il gatto, emaciato e con i polpastrelli delle zampine consumate, tornò da solo a Champdepraz attraverso chissà quale viaggio avventuroso  e seguendo chissà quali istinti.
Oppure, altro ricordo, il terribile gatto della donna di servizio di quando ero bambino, che è stata anche mia amatissima baby sitter. Rosina, questo il suo nome, prese il gatto, disubbidiente e impossibile, e lo mise in un sacco ben legato e lo buttò dal ponte sulla Dora ad Issogne. Tornata a casa, il gatto diavolaccio era già seduto sul davanzale della finestra, bagnato fradicio e con l'aria spiritata, palesemente furioso per il tentato omicidio. Morì di vecchiaia.

La Scandinavia e certi confronti possibili

Il vecchio Municipio di MalmöSo che a dire "Scandinavia" si entra in un grande pasticcio, visto che la regione geografica  non coincide con la definizione storico-cultural-politica e dunque tanto vale parlare di Paesi dell'Europa del Nord (in sintesi "Norden").
Con la sola esclusione della Norvegia, fanno parte dell'Unione Europea la Svezia, la Danimarca con le isole Fær Øer (con statuto autonomo), la Finlandia con le isole Åland (minoranza di lingua svedese) e c'è infine l'Islanda, che ha chiesto di entrare nell'Unione. 
Scrivo da Malmö, dove mi trovo per l'ultima trasferta annuale del "Comitato delle Regioni". Una finestra utile sui problemi scandinavi, in particolare con il grande dibattito sul problema vissuto drammaticamente da questa città del Sud della Svezia, collegata da pochi anni con un lungo ponte con Copenaghen. Mi riferisco all'immigrazione e ai problemi di convivenza conseguenti, che pesano su questi Paesi di pochi milioni di abitanti. Ricordo la recente strage in Norvegia da parte di un pazzo, che non a caso ha nascosto la sua follia dietro a ragioni razziste e xenofobe. 
In termini generali nelle società scandinave si assiste ormai alla fine di un'ospitalità senza regole e si afferma la pretesa che chi viene si integri. 
A noi valdostani guardare al "modello scandinavo" è utile per confrontare il "Welfare valdostano" con il loro "Welfare", forte e radicato, ma soggetto a ragionamenti di contenimento della spesa su cui bisogna lavorare anche da noi, sapendo che da loro, a differenza nostra, non esiste evasione fiscale.
Altro interesse: le zone del Grande Nord "a debole densità di popolazione", hanno analogie con le nostre zone alpine. Questo vale per la rarefatta presenza di popolazione e anche per lo sforzo di garantire in aree marginali e poco popolose i servizi d'interesse generale e i settori economici indispensabili. In questo, malgrado la distanza, siamo alleati in sede europea per quelle che vengono chiamate "zone ad handicap naturale permanente", che non vuol dire che i posti non siano umanamente vivibili e splendidi dal punto di vista paesaggistico. Ma l'economia globale, le regole della concorrenza, le liberalizzazioni selvagge pesano, creando appunto l'handicap in certi territori a detrimento della vita delle comunità, dei cittadini e delle imprese.

Nessuna verità

Amanda Knox scortata dalle agenti di polizia penitenziariaIl "caso Cogne", quasi dieci anni fa, era già stata una vicenda esemplare del rapporto fra Giustizia e mondo dell'informazione. Una donna, Annamaria Franzoni, e la morte di suo figlio Samuele in un contesto familiare complesso nell'ambito di una piccola comunità di una paese alpino. Un delitto come tanti che si era gonfiato a dismisura, finendo per anni sotto le luci della ribalta in un lungo e grottesco processo televisivo.
Ma se Cogne era stata una storia tutta italiana, l'omicidio brutale di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia - con la sua Università con studenti da tutto il mondo, nel novembre 2007, è diventato un caso seguitissimo negli Stati Uniti, perché uno dei presunti assassini era una giovane americana, Amanda Knox, che con il fidanzatino, Raffaele Sollecito, erano stati già condannati per l'omicidio in primo grado.
Ieri sera ho seguito la lettura della sentenza, essendo in Svezia, nelle trasmissioni in diretta della "Cnn", la televisione americana di sola informazione, dall'evidente posizione innocentista e che ha plaudito all'assoluzione con formula piena.
L'Italia veniva descritta, nella lunga attesa, come un Paese arretrato e tribale senza una Giustizia efficace e veniva da sorridere amaramente pensando a quel che capita negli Stati Uniti agli innocenti uccisi sulla sedia elettrica o con un'iniezione letale.
Per la Corte d'Assise d'Appello il solo colpevole, che sconta in prigione la pena definitiva, è dunque il giovane africano Rudy Guedé, che ha sempre sostenuto di non aver partecipato all'assassinio. Lui non ha avuto avvocati famosi, un Paese come l'America mobilitato in suo favore, un viso bello e angelico, una famiglia sempre presente.
In fondo non si saprà mai la verità.

Il Presidente della "moral suasion"

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con il tricoloreI prossimi giorni vedranno il soggiorno in Valle del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Sono contento che, prima della conclusione del suo settennato, il Presidente abbia deciso questa visita.
Ho già scritto che mi lega un rapporto di amicizia e che lo votai con entusiasmo, come delegato della Valle d'Aosta, nel maggio del 2006 nell'aula di Montecitorio.
L'ho conosciuto bene quando fu presidente della Camera nell'undicesima Legislatura ed io ero presidente del Gruppo Misto e dunque nelle riunione dei Capigruppo sia era sviluppata un'evidente familiarità. Un filo che riprese in Europa, quando ci ritrovammo colleghi, unici italiani presidenti di Commissione, lui alla "Commissione Affari costituzionali", io alla "Commissione trasporti e politiche regionali"
In molte occasioni ci è capitato di parlare di federalismo (avevo aderito anche al "Movimento Europeo" da lui presieduto) e so benissimo quale sia la sua competenza e il suo senso della misura. Conosce anche la Valle d'Aosta sia per le vicende di quello che fu il suo partito - e lui era della componente "migliorista", oggi si direbbe "liberal", del PCI - sia per le frequentazioni parlamentari di deputati valdostani, ma anche per la sua profonda competenza nel diritto costituzionale ed è bene ricordare sempre che il nostro Statuto è di rango costituzionale e dunque Napolitano ne è naturale difensore.
E' un'epoca in cui il Presidente esercita la sua capacità di "moral suasion" con l'autorevolezza che gli viene riconosciuta. Sono a questo proposito significativi i "sassolini dalle scarpe" fuoriusciti nel corso della recente visita a Napoli, specie con affermazioni energiche sulla fumosa entità battezzata dal rimpianto giornalista sportivo Gianni Brera con la parola "Padania", prima che si trasformasse in uno Stato sovrano in pectore, secondo il pressing da comizio della Lega. Sono a questo punto curioso di capire come approfitterà della sua visita valdostana e quali temi di conseguenza affronterà. Spero che si occupi delle "autonomie speciali", visto il suo background.
Sono lieto di incontrarlo. Ogni volta che è capitato in questi anni è sempre stato affettuoso e l'ultima volta al Quirinale mi ha bonariamente sfottuto per la mia capigliatura: «Ti stai facendo grigio anche tu!».
Il suo compito di questi tempi e ad un'età veneranda è davvero difficile: salvare l'immagine e la credibilità dell'Italia per tutte le ragioni per cui vergognarsi, di cui evito l'elenco perché - con un ossimoro - fatti preclari nell'incombente oscurità.
Un'epoca di passaggio, che non si sa bene dove porterà e non nascondo come spesso mi capiti di avere sul tema qualche ansia, specie per il futuro dei miei figli. Il Capo dello Stato è un europeista dal tratto cosmopolita con un carattere deciso e talvolta spigoloso, ma anche con uno humour partenopeo-anglosassone che usa per sdrammatizzare al momento buono. In questa situazione italiana, complessa e spesso inintelligibile, è un consolante punto di riferimento.

Da commedia a tragedia

Ridere per non piangere.
Credo di aver capito da mio padre che non bisogna mai prendere le vicende della vita, nella dimensione privata e nelle vicende della storia che ci investono, con un atteggiamento catastrofistico. Non serve, anzi peggiora la situazione.
Naturalmente dico questo facendo la tara, perché le difficoltà della mia generazione, anche se le nubi si fanno sempre più scure, sono infinitamente inferiori rispetto a quelle di chi ha rischiato la vita nelle terribili vicende degli anni Quaranta.
Tuttavia questo ragionamento non può avere nulla di consolatorio: prendete un giornale di queste ore. La scelta di "Moody's" di tagliare il rating italiano era stata qui anticipata da tempo.
Non perché fossi un indovino, ma perché il progressivo peggioramento della situazione italiana è purtroppo sotto gli occhi di tutti.

Le cose cambiano

Una casetta per l'essiccazione delle castagneLa storia dell’alimentazione è un argomento appassionante. Mi è capitato più volte di citare, nella evidente banalità della considerazione, come la polenta (dunque la farina di mais) e la patata siano oggi capisaldi della nostra cucina. Ben sapendo, però, che questi prodotti, giunti dall’America, siano arrivati tardivamente nelle nostre vallate, prima il mais nel 18esimo secolo e poi la patata (solo attorno agli anni Settanta dello stesso secolo).
Non ci trovo niente di strano. Le cose cambiano e se oggi invitassimo a tavola un valdostano di un secolo o di due secoli fa resterebbe stupito dei nostri usi e costumi alimentari e viceversa se dovessimo, con una macchina del tempo, finire al loro desco saremmo noi ad essere stupiti.
Dovessi pensare all’elemento più marcante direi che è la nostra capacità di conservazione dei cibi grazie certamente al frigorifero ma anche alle formule di impacchettamento, ma aggiungerei anche la varietà di prodotti che attraversano il mondo e che trasformano i nostri ipermercati in una sorta di "Paese della Cuccagna" per eventuali visitatori dal passato.
E fossimo noi a tornare indietro? Penso che saremmo colpiti dalla stagionalità dei prodotti, ma anche dall'ingegnosità del loro uso nei mesi successivi e dalla logica di autosufficienza di un sistema nel quale nulla andava perduto e ogni prodotto veniva sfruttato al massimo delle possibilità.
Esemplare sarebbe piombare, attraversando le epoche, in quella media e bassa Valle che campava attorno alla cultura del castagno, visto che questa è la stagione, come si vede dalla livrea autunnale della nostra Valle.
Dal legname ai frutti freschi, dalle foglie alla farina, dal miele alle castagne secche. Si trattava di una cultura tutto tondo, ormai estinta e vi devo dire dello stupore dei miei figli, in una gita autunnale nelle zone di origine della loro mamma (una Martinet di Pontboset) in mezzo a castagneti oggi abbandonati. Raccontare loro del "ciclo" di produzione, comprese le casette ("grehe" o "gra", secondo i patois) per l'essiccazione, è come parlare di civiltà remote. Ed invece è un mondo appena dietro l’angolo, che si è estinto nel breve volgere di pochi decenni.
Non bisogna piangere sterilmente sul passato, ma non si può neanche dimenticare. Esiste un dovere della memoria.

L'addio ad un innovatore

Steve Jobs durante la presentazione del primo iPhoneCon Steve Jobs se ne va un pezzo della vita delle generazioni che, come la mia, sono state al centro di una rivoluzione sconvolgente. "Apple" è stata la società che forse più di tutte le altre, nella logica genio e sregolatezza di Jobs (celebre il suo motto «siate folli, siate affamati», che dovrebbe essere scolpito sui muri perché il mondo lo cambiano gli innovatori e non i conservatori), ci ha consentito di avere degli strumenti tecnologici che ci hanno dato più libertà.
Ho seguito le "pazzie" di Jobs dai primi "Macintosh" in poi e oggi, pur convivendo con gli altri mondi paralleli dell'informatica, sono un "iPhoniano" convinto che usa anche "iPad" e la mia vita è cambiata nell'uso quotidiano di questi aggeggi.
Credo che due siano i filoni: il primo è il "sapere" che sotto varia forma ti può essere trasferito nella semplificazione del lavoro e per il tuo arricchimento personale, il secondo è - prezioso contro la marginalizzazione di zone come le nostre - che il sapere viene decentrato e da un qualunque luogo fisico, laddove certo ci dev'essere un collegamento via Internet, ti connetti con il mondo intero.
Jobs veniva sfottuto come un "guru" delle nuove tecnologie per la sua capacità di comunicare e una sorta di ossessione ai continui miglioramenti in un ambiente competitivo in cui non ci si può fermare. Questo aspetto febbrile è quello che gli ha consentito di guardare avanti e di esplorare spazi scientifici non ancora conquistati. Resterà solidamente nella storia e ha lasciato la scena con grande dignità, mostrando senza problemi - ancora nelle ultime apparizioni pubbliche - la sua lotta coraggiosa e esemplare contro la malattia.

La classe non è acqua

Il Presidente Napolitano mi saluta in Consiglio ValleLa classe non è acqua e in certi casi ciò appare in tutta la sua evidenza.
Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, con un discorso "a braccio" di evidente efficacia pronunciato a Palazzo regionale, ha dimostrato per l'ennesima volta come un Capo dello Stato possa esercitare il suo alto magistero con grande capacità e raro equilibrio.
Un vecchio saggio che trasuda competenza e senso dello Stato in forte chiave europeista. Esattamente il contrario di chi passa il tempo a distruggere la credibilità della democrazia, ad avvelenare il senso civico, a far "carne di porco" del senso morale e a mischiare affari suoi con il bene pubblico.
Avendo attraversato la politica italiana per oltre sessant'anni, Napolitano può esprimersi sulla nostra storia contemporanea con competenza e bastano tre nomi citati - Emile Chanoux, Federico Chabod e Severino Caveri - per tratteggiare le ragioni della nostra attuale Autonomia speciale. Lo ha fatto con grande perizia "costituzionale", citando decreto luogotenenziale del 1945 e Statuto speciale nel 1948.
Plaudire al "sistema valdostano", che mette assieme aspirazioni ideali e necessità di assicurare un'amministrazione concreta, e condividere le aspirazioni federaliste vuol dire per Napolitano, che non ha paura di usare il termine "identità" (e di usare il francese nei saluti finali), entrare nel merito di una discussione in corso. Il suo federalismo non è mai un balbettamento opportunistico, ma entra nel vivo di un dibattito storico strettamente legato al 150esimo anniversario dell'Unità d'Italia e il Presidente della Repubblica ha persino evocato il regionalismo in cui credeva lo stesso Camillo Benso Conte di Cavour!
Con me è stato simpatico al momento del saluto in Consiglio Valle, trovandomi «irrobustito» rispetto ad un'immagine smilza che aveva nella memoria. Maledetti anni che passano!
Abbiamo sorriso assieme.

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